LE “Vite sbandate” DEL BRIGANTAGGIO POST UNITARIO NEL BASSO SALENTO. UNA RICERCA DI IVAN FERRARI SVELA PAGINE MISCONOSCIUTE DELLA NOSTRA STORIA. LE CONCLUSIONI DELL’ AUTORE. DAL SUO LIBRO, IL RACCONTO DI UNA ‘CACCIA ALL’ UOMO’ NELLA CAMPAGNE DI MELISSANO

| 25 Luglio 2015 | 0 Comments

di Ivan Ferrari_______

(Rdl______Presentazione nella “sua” Alezio del volume “Vite Sbandate. Brigantaggio nel basso Salento (1860-1866)” di Ivan Ferrari. Trentasei anni, laureato in Beni Culturali e specializzato in Topografia Antica, svolge attività di ricerca presso l’IBAM CNR di Lecce ed è autore di diverse pubblicazioni scientifiche a carattere storico, archeologico e tecnologico. Quest’ultimo contributo, che segue ‘Alezio 2 giugno 1946’ (Esperidi 2009) e ‘La fiera della Lizza’ (Esperidi 2010), è figlio della grande passione dell’autore per lo studio della storia locale, che qui abbraccia l’intero territorio del basso Salento.

Credendo che l’ argomento interessi e anzi appassioni, molti dei nostri lettori, abbiamo chiesto all’ autore di riassumerci le  sue conclusioni della serata di presentazione, che riportiamo qui di seguito, e un brano del suo libro, che pubblichiamo per gentile concessione dell’ editore Claudio Matino, al quale va un ringraziamento particolare).

 

CONCLUSIONI 

Il volume, frutto di una ricerca d’archivio durata circa quattro anni, riporta alla luce tutta una serie di vicende e personaggi che animarono il basso Salento nel concitato periodo che seguì l’Unità d’Italia, dalla propaganda risorgimentale sprezzantemente etichettato come ‘brigantaggio’. In realtà si trattava di una diffusa insofferenza verso i nuovi regnanti ed il nuovo Governo, che si dimostrarono incapaci di dare una risposta politica al problema, prediligendo invece l’azione di forza tesa a stroncare nel sangue ogni forma di protesta e reazione.

Proteste che fra il 1860 ed il 1861 sfociarono dapprima nei moti popolari di Sternatia, ed in quelli più vasti del circondario di Poggiardo, e di Taviano, Racale ed Alliste, anche con tragiche conseguenze sia dall’una che dall’altra parte, successivamente seguiti dalla formazione di due bande armate che operarono nell’estate del ’61.

La prima di esse si componeva prevalentemente di giovani provenienti dal circondario di Gallipoli, per la maggior parte di Villa Picciotti (attuale Alezio) ed ebbero come obiettivo i disarmi, avvenuti senza spargimento di sangue, dei corpi di Guardia Nazionale di San Nicola (9 luglio) e Picciotti (23 luglio).

L’altra capitanata dal parabitano Rosario Parata detto Lo Sturno, con il medesimo modus operandi mise a segno un’impressionante sequenza di incursioni in altrettanti locali quartieri militari. La prima azione fu il disarmo di Zollino la notte fra il 2 ed il 3 agosto, cui seguirono Supersano, Cutrofiano, Scorrano, ancora Cutrofiano, Castrignano dei Greci, Galugnano, Nociglia, Surano e Spongano, queste ultime tre avvenute congiuntamente il 23 agosto a seguito del vittorioso scontro a fuoco contro la Guardia Nazionale di Poggiardo a ridosso del bosco Belvedere. Paradossalmente, proprio dopo quest’ultima impresa in cui Lo Sturno raggiunse il suo apice di popolarità, si ebbe inaspettatamente il dissolvimento della sua comitiva, che cedendo alle continue pressioni avanzate dai vari esponenti locali delle istituzioni, decisero, laddove non già arrestati, di presentarsi volontariamente, per riprendere il servizio militare sotto la nuova bandiera tricolore.

Seguì quindi un intero anno di inattività, derivato anche dalle incessanti indagini che portarono a segno una lunga fila di arresti, e sul nascere il tentativo messo in atto da parte dello Sturno di ricomporre sul finire del 1862 un’ulteriore banda.

Il 25 giugno 1863 esordì una nuova comitiva di sbandati, composta dal sodalizio fra la piccola comitiva di Quintino Venneri di Alliste soprannominato Melchiorre e quella più numerosa della banda di Picciotti, all’interno della quale sembrò emergere la figura Ippazio Gianfreda detto Panararo, il cui obiettivo non erano più gli assalti ai posti militari, bensì i singoli liberali. Furono autori di una lunghissima sequenza di azioni, che le forze governative non riuscirono a contrastare, salvo poi in ultimo mettere a segno e nel giro di poco tempo l’uno dall’altro, gli arresti dei due capibanda fra la fine del ’63 e l’inizio del ’64. Tuttavia, quando ormai la quiete pubblica sembrava essere assicurata, un evento inaspettato mise nuovamente tutto in discussione: ossia l’evasione di Quintino Venneri dal carcere San Francesco di Lecce il 20 settembre del 1864. La sua determinazione fu tale che riuscì ancora una volta a ricomporre una nuova comitiva e questo anche grazie al suo carisma, mettendo a segno una serie di colpi che lo imporranno all’attenzione delle forze governative, che riusciranno a sgominare banda, ma non ad arrestarlo. Divenne quindi una lotta impari e solitaria, che Melchiorre portò avanti sino alla fine, rendendolo agli occhi di molti quasi una leggenda vivente.

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7.14. LO SCONTRO A FUOCO TRA BRIGANTI ED UN DRAPPELLO DI FANTERIA 

Incessanti, continuarono le perlustrazioni dell’esercito nel territorio110 e sempre in quel 9 settembre, a non molti chilometri di distanza dalla contrada Macchiforte di Gallipoli, un drappello di quindici soldati della 15a Compagnia del 56° Reggimento di Fanteria, sotto il comando del tenente Rossi, si partì in unione a due Reali Carabinieri a piedi da Casarano, per andare a loro volta a caccia di briganti.

Ad un certo punto il Tenente divise il gruppo in due plotoni, il primo guidato da lui e dal carabiniere Gaspare Leccio si diresse nel territorio di Alliste, l’altro guidato dal 28enne carabiniere a piedi Sartorj Lorenzo e dal 24enne caporale Francesco Campana, entrambi piemontesi, prese la volta dei territori di Melissano e Racale.

Dopo ore di pattugliamento e sul calar del sole, quest’ultimo gruppo di nove uomini giunse nei pressi della vigna di un certo Alessandro Briganti in agro di Melissano. Circa una mezz’ora prima proprio in quel vigneto era giunto il pastore 36enne Pasquale Potenza, con il permesso accordato da Isidoro Matino, colono di quel fondo, di far pascolare il proprio gregge nella vigna. Lì giunto trovò il guardiano, che altro non era se non il cognato dello stesso colono, ossia il 37enne di Melissano Ippazio Vincente, che sorvegliava l’uva raccolta in attesa dell’arrivo del traìno previsto per l’indomani mattina.

Nel giungere con il suo gregge, il Potenza si accorse della presenza di quattro sagome maschili, che pensò fossero dei lavoratori che si ritiravano in paese, seguite a pochi passi da una contadina. Si trattava della me¬lissanese Anna Maria Sandalo, la stessa che durante l’uccisione di don Marino si trovava suo malgrado ad assistere la figlia inferma che abitava nello stesso vicolo del prete. La donna, avendo in quella sera terminato il lavoro nei campi, si stava ritirando in casa quando fu raggiunta e poco dopo superata da quei quattro sconosciuti, con i quali per qualche minuto ebbe modo di percorrere, quasi fianco a fianco, un breve tratto di strada in comune. Potè quindi scrutare meglio le loro sagome, che delineavano delle persone grossomodo tutte sul metro e settanta, tranne una che spiccava sulle altre per la sua altezza e per una corporatura decisamente più snella. A differenza degli altri che vestivano alla contadina, questi indossava abiti da caccia, fra cui una giberna di cuoio nera ed un cappello di paglia.

Era proprio il Mustazza, uno dei due carnefici di Papa Marino che la donna tuttavia non conosceva, così come non conosceva lo stes¬so Quintino Venneri, che assieme a Ippazio Gianfreda e Barsanofrio Cantoro componeva il quartetto. Consci del costante pericolo di truppe in perlustrazione, furono proprio loro ad accorgersi per primi della minaccia che si annidava nei campi, ed avvedutisi dei soldati in corrispondenza di quel vigneto, il grup¬petto si accovacciò dietro il basso muretto a secco che ne tracciava il confine. La Sandalo, intuendo essere quelli dei briganti ed ancor più impaurita dal so¬praggiungere della truppa, affrettò il passo per allontanarsi il più possibile. Di contro i militari, non essendosi accorti degli sbandati, si insospettirono lo stesso nell’osservare l’atteggiamento del Potenza e del Vincente che, standosene in piedi nei pressi di una piccola casina, davano l’impressione di essere delle sentinelle.

Fu così che la forza si avvicinò schierata in formazione d’attacco con i fucili spianati, a sua insaputa proprio vicino a quel muricciolo dietro il quale si erano nascosti i briganti. Melchiorre, Panararo, Mustazza e Cantoro, sentendo il calpestio degli stivali militari farsi sempre più vicino, ritrovandosi di molto inferiori nel numero e in un’estrema situazione di pericolo, dopo un repentino cenno d’intendiemento, serrarono fra le mani le loro doppiette preparandosi ad attaccare. Intanto i soldati, avanzando decisi in direzione della casina, erano ormai giunti a qualche decina di metri dal muretto, da dietro il quale all’improv¬viso videro elevarsi in piedi all’unisono le sagome di quattro uomini. Colti alla sprovvista, in men che non si dica si videro puntati contro quattro schioppi. Le fiammate di altrettante fucilate illuminarono per un’istante i volti dei bri¬ganti ed una scarica di palle di piombo sibilò pericolosamente contro i soldati.

Sorpreso e sotto attacco il drappello si gettò immediatamente a terra contrat¬taccando al fuoco. I briganti tuttavia, avevano già provveduto a darsi alla fuga e con i soldati distesi per terra riuscirono a conquistare alcuni preziosi metri di vantaggio. Il guardiano ed il pecoraro all’esplodere delle fucilate, cercarono riparo dietro la casina, da dove qualche istante dopo videro i quattro briganti passare a non più di quindici passi di distanza, mentre scappavano zigzagando attraverso le pecore nella vigna. La truppa, rimasta incolume, entrò nel vigneto e un carabiniere raggiungendo il Potenza prontamente gli chiese: “Dove sono andati?”. “Da quella parte!”, rispose l’uomo puntando con l’indice della mano destra la direzione. I

mmediatamente tutti e nove i soldati della truppa si dettero all’inseguimento con una tale foga che dopo qualche centinaio di metri riuscirono a raggiungere i fuggitivi in un folto oliveto. Qui i briganti, vedendosi ormai quasi spacciati, si appostarono dietro dei poderosi e tortuosi fusti pronti a far fuoco. I militari dal canto loro si divisero in due tronconi per aggirarli. I ricercati, comprendendo la strategia della forza, si decisero in un ultimo e disperato tentativo, ossia quello di sfondare armi in pugno l’accerchiamento, attaccando temerariamente una delle due tenaglie. Intanto i fanti, cauti, avan¬zavano inesorabilmente di albero in albero guadagnando posizione e andando progressivamente a stringere sempre più la morsa. I briganti, dal canto loro, studiavano il loro incedere, nella speranza di individuare il punto ed il momento favorevole per concentrare le loro ultime scariche: silenti, si preparano quin¬di nella penombra a sferrare l’attacco.

Erano tutti tesi, pronti a scattare come molle, quando il Mustazza in una frazione di secondo notò un soldato trovarsi momentaneamente allo scoperto nel gruppo di militari a destra, senza pensar¬ci, d’istinto gli scaricò immediatamente contro il suo fucile, seguito a raffica da Panararo, Melchiorre e Cantoro. Fu proprio il proiettile del Mustazza ad andare a segno; l’uomo, ferito, cadde a terra ed apertosi il varco i quattro vi si infilarono, superando come schegge l’uomo a terra e riprendendo nuovamente a fuggire. Un nuovo inseguimento ebbe inizio, ma i briganti muovendosi a memoria in un territorio che conoscevano come le loro tasche, dopo poco riuscirono a dileguarsi aiutati anche dal sopraggiungere dell’oscurità.

Intanto il carabiniere Sartorj Lorenzo, che guidava i militari che avanzavano a sinistra, raggiunse il commilitone ferito per prestargli soccorso. Questi era un soldato 21enne originario di Pinarolo, a nome Gaido Stefano, che un istante dopo le fucilate subite dagli sbandati ed a causa di una forte fitta alla gamba, si era accasciato per terra. Ritratto l’arto a sé, lo teneva serrato con tutte e due le mani, mentre si elevavano per aria le prima grida di dolore. “Mi sento bagnato! Mi sento bagnato!” questi urlava al Sartorj nell’avvertire le mani intrise di sangue.

I suoi compagni cercarono di tirarlo su, ma le fitte sempre più lancinanti non consentivano al Gaido di muoversi. Non riuscendo, data l’oscurità, ad osservare l’entità della ferita, il militare si fece quindi a ricercare con la mano il punto di fuoriuscita del sangue, trovando il foro d’entrata del proiettile late¬ralmente poco discosto dalla tibia. Il giovane soldato, stringendo i denti, portò delicatamente la mano nella parte posteriore in corrispondenza del polpac¬cio, nel punto in cui il dolore era più pungente e si accorse dell’esistenza di una escrescenza. Era estremamente dura e tastandola meglio appariva come un corpo estraneo. Con la voce alterata dal dolore, disse ai suoi commilitoni: “Non riesco a camminare perché la palla è ancora dentro!”.

Data la situazione, il caporale Campana rivolto a due dei suoi ordinò: “Veloci, andate a Melissano e recuperate un animale per trasportare il ferito!”. Così fecero e poco dopo vi ritornarono con una mula. Attirato dal rimbombo delle fucilate, nel frattempo era sopraggiunto anche il resto del plotone guidato dal tenente Rossi, che pre¬so il comando della situazione ordinò a due suoi uomini di raggiungere il prima possibile Racale per avvisare il sindaco Diodato Rizzo dell’arrivo del plotone e della necessità di un medico; fu così che adagiato il ferito sull’animale, tutta la truppa lo scortò sin dentro l’abitato.

Era da poco suonata la mezzanotte quando un messo andò ad allertare il medico condotto Bonaventura Vergari. Giunto in Racale, il soldato Gaido fu immediatamente trasportato in casa del dottore. Venne aiutato a distendersi su di un letto e tagliati i pantaloni in corrispondenza della ferita, venne sottoposto ad una scrupolosa visita medica.

Erano trascorse due ore dallo scontro a fuoco ed alla luce del lume si osservò nella regione medio laterale della gamba destra, una ferita contusa avente la lunghezza di circa dieci linee e la profondità di cinque dita poste di traverso, prodotta dalla spinta di un proiettile. La palla era quindi penetrata nella carne bucando il tessuto cutaneo e camminando all’interno per circa otto centimetri, ma venendo meno la spinta propulsiva si era arrestata fra i tessuti interni e lo strato cutaneo posto nella parte retrostante della gamba.

Il dottor Vergari non vide altra soluzione che operare all’istante il giovane per scongiurare l’insorgere di infezioni e dopo aver sterilizzato i ferri, dispose di ruotare il Gaido sul letto ponendolo prono a pancia in giù. Aiutato dagli altri militi, fece bloccare loro l’arto per evitare movimenti inconsulti durante la fase di estrazione del proiettile. Con una lama, quindi, procurò un ulteriore squarcio nella pelle del polpaccio in corrispondenza del corpo estraneo, dopo di chè presa una tenaglia, la infilò dentro la viva carne e divaricandola con una rotazione del polso afferrò infine la palla di piombo, strappandola via dal muscolo, il tutto fra le lancinanti grida di dolore del soldato. L’operazione ebbe comunque buon esito e poco dopo, durante la medicazione, il Gaido sebbene molto provato soggiunse: “Voglio quel proiettile!”. La sfera di piombo del calibro di un’oncia, circa 21,5 mm, dalla gamba del milite finì poco dopo nelle mani dello stesso, intenzionato a conservarla a ricordo dello scampato pericolo.

 

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Category: Cultura

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