INSTANT STORY, UN RACCONTO SCRITTO A QUATTRO MANI SULL’ATTUALITA’ / “Il tempo sospeso”

| 19 Aprile 2020 | 0 Comments

di Sara Foti Sciavaliere Giuseppe Puppo______

Illustrazione di Giuseppe Mauro______

Era più di un mese, che il tempo era sospeso, per Francesco detto Checco della 167. Prima, la vedeva tutti i giorni, dietro la vetrina del negozio, un laboratorio artigianale di foto – video dove lei lavorava, o che comunque frequentava con regolarità, non aveva ben capito: se ne stava davanti, furtivamente, per qualche secondo, le mani in tasca, per poi allontanarsi subito dopo, le mani dietro la schiena.

Le occasioni bisogna prenderle al volo, e Checco non l’aveva fatto.

Ora, il tempo era sospeso.

Ora, non la vedeva più, perché là c’era solo una saracinesca abbassata con sopra un cartello, e tanto comunque non si poteva più uscire di casa.

Ora, la vedeva solo dietro un oblò del sottomarino su cui era sprofondato, a fondo nel tempo sospeso, da dove guardava quel mondo senza senso.

Se ne stava dietro i vetri della sua stanza e questi presto si appannavano, anche perché “face friddu ntorna”, come diceva sua mamma, accendendo i termosifoni, per quanto fosse arrivato il mese di aprile.

Quei vetri riflettevano un futuro senza contorni e senza identità, e la speranza era solo più il nome di un ministro che in quei giorni usciva spesso in tv.

 

Le occasioni bisogna prenderle al volo, e Checco l’aveva fatto. A modo suo

Le aveva chiesto, un pomeriggio che l’aveva aspettata all’uscita del laboratorio, sorridendole, con un pretesto banale, il primo che poteva venirgli in mente, di scattargli per strada una foto che gli serviva per lavoro e che non poteva farsi da solo, dal suo telefonino, e di inviargliela sul proprio.

 

Avutala, e soprattutto avuto così il numero di telefono, più tardi le mando un messaggino che voleva essere scherzoso e informale…

Che figo! Che tenero!!

Ma lei non capì, o fece finta di non capire.

 

Lei non l’aveva mai chiamato, né mai si era osato, di farlo a sua volta.

La sua voce, un’immagine sbiadita anch’essa.

Però gli aveva risposto su WhatsApp, molto formale, niente di che, contrariata quasi, o almeno così gli era sembrato. Ma da cosa nasce cosa, e insomma qualche altra cosa si era mossa da là in avanti.

Non aveva mai cercato di assalirla, di indagare, di pretendere.

Una notte che non riusciva a dormire, perché “face friddu, mia scerratu cu dumu li termos”, aveva sentenziato sua madre, ciabattando per il corridoio, ché poi era strano che a Lecce facesse così freddo, a primavera, ma così era, con quell’umidità che ti entrava nelle ossa, almeno in quella casa all’ultimo piano di un palazzone sgangherato, gelida d’inverno, specie quando buttava tramontana, e calda d’estate, assediata dall’afa, e accecata dalla luce, talmente forte da nascondere la fiamma del gas dei fornelli della cucina, e a che stava pensando?

Ah, sì, che una notte, preso il coraggio a due mani – timido come un ragazzino, alla sua età, poi! –  Checco le aveva mandato un messaggio, chiedendole se potevano vedersi, solo per un caffè, eh? di mattina, o alla pausa pranzo, quando voleva insomma, e lei, incredibilmente, gli aveva risposto, gli aveva risposto subito, nel cuore della notte, e gli aveva detto di sì, almeno così sembrava dalle sue due parole: “Perché no?”.

Però poi Checco non aveva colto la palla al balzo.

Si erano scambiati messaggini di conoscenza formale, e i giorni erano passati così, sapendo qualcosa in più l’uno dell’altra, però sempre troppo poco, e soprattutto senza concretizzare l’appuntamento.

E così poi quella palla diventò presto il pallone a cui lui tirava due calci fra le mura di casa, giusto per tenersi un po’ in movimento, giocando contro i gatti, e riusciva pure a perdere, perché veniva sistematicamente espulso dalla madre che gli imprecava contro, minacciando di prendere il battipanni di quando era piccolo, altro che un cartellino rosso.

 

Era cominciata la quarantena obbligatoria per tutti…Che culo!

Non solo non fu più possibile organizzare l’appuntamento, che stava già diventando da un semplice caffè, una vera e propria cena, ma a Checco non fu più possibile proprio uscire. A fare la spesa ci andava la madre, bardata di sciarpona e guanti da sci –“ce cazza te friddu stannu”- non teneva manco un cane, al massimo poteva aspettare, come faceva tutti i giorni con ansia, il momento di andare a buttare l’immondizia fra i bidoni gialli, blu e marroni della differenziata, per qualche minuto di libertà, fino al cancello e dintorni, e qualche passo nel vuoto.

Non era ancora diventato matto, ma sentiva di starci andando sempre più vicino.

Camminava su e giù per il balcone, cercava di vedere, come succedeva raramente, solo in pochissimi dei tanti giorni di sole e di vento, il mare che gli mancava, per poter abbracciare il Salento, anzi, pure i monti dell’Albania.

Parlava da solo pensando di parlare veramente con Maria Assunta, diminutivo Assuntina, detta Tina.

 

Tina – questa la prima idea che si era fatto di lei – a differenza di lui stava bene da sola. Viveva con i suoi, con i quali era tornata dopo la fine di un amore, e le bastava questa compagnia, o, almeno, se la faceva bastare. Mangiava troppe cose dolci, beveva qualche bicchiere di vino, leggeva tanti libri, dopo che in passato aveva letto troppi fotoromanzi. All’amore, non credeva più.

Questi i dispersi frammenti su di lei che Checco aveva ricevuto e ricavato, presi così, a caso e alla rinfusa. Però, a metterli insieme, incastrandoli, il risultato era diverso, il puzzle diventava ben chiaro.

La ‘sentiva’ di sovente contrariata, di cattivo umore….

Tina poteva ingannare chi si fermava alla apparenze, i suoi amici di cui gli aveva sommariamente accennato, poteva apparire così agli altri, i parenti, le amiche e gli uomini che le erano piaciuti e che l’avevano ingannata, ma non lui.

Lui non era come tutti gli altri.

Quando si ama qualcuno, si acquistano super poteri altrimenti irraggiungibili: vedere oltre le apparenze, per esempio, sentire gli ultrasuoni.

Certe crisi sono soltanto segno di qualcosa che urla dentro per uscire.

Tina gridava, ma solo Checco poteva sentire cosa stesse dicendo.

Tina aveva paura, ma non di lui, aveva paura dell’amore. Del suo amore di cui altri in passato avevano approfittato. Per questo era stata apparentemente distratta, forse fredda, a volte formale, e comunque non si era mai lasciata andare…

Così pensava Checco, o forse si illudeva, mah…Ma dubbi non ne aveva, non voleva avere dubbi, sul fatto che quella tutto sottratto mediocre risposta in frequenza fosse per un attuale dissidio insito in lei fra ragione e amore, e non magari, invece, per il fatto che lui non le piacesse, e basta, o non lo considerasse nulla di più di un amico, un conoscente e basta, così, semplicemente: si era convinto della prima ipotesi, e aveva scartato la seconda.

 

Checco in quei giorni non leggeva più libri, leggeva e rileggeva quelle chat laconiche e frammentarie, da cui aveva imparato, guardando fra le righe, a considerare le pagine chiare e le pagine scure dell’esistenza.

 

Poi, da solo, le parlava, in quel tempo sospeso, le si rivolgeva come se fosse là davanti, come se potesse sentirlo. “Lo so che hai paura” – le diceva – “Ma io non sono come gli altri. Io…Io voglio passare con te tutti i giorni che ci saranno nella mia vita. E quando desideri il futuro, ti aspetti che cominci quanto prima. Io, per te ho progetti importanti, sai? Saremo molto più che amici…Molto più che amici, e saremo pure un po’ felici. Vuoi condividere?”.

 

Ma Tina non rispondeva. Del resto, che senso ha parlare di futuro nel tempo sospeso?

Tina era solo un’immagine sbiadita che evaporava sui vetri.

Eppure la vedeva, nella luce del giorno, nel buio della notte, gli occhi grandi, i capelli corti, di quel castano chiaro, oppure un po’ più scuro, con le labbra lunghissime a disegnare ogni volta un’espressione del viso diversa, ma sempre suggestiva, che arrivava dritta al cuore, come quei sorrisi smorzati, teneramente accennati, appena, perché Tina non rideva, sorrideva, appena appena.

Tina, il suo chiodo fisso.

Ma quattro chiodi appesi al muro del futuro fanno una croce.

 

 

I vetri erano rigati da una pioggerella leggera e costante che aveva reso più pesante il silenzio della sua solitudine. Non era sola in casa, c’erano i suoi genitori…Ma del resto non si sbagliava Josè Saramago quando scriveva “la solitudine non è vivere soli, la solitudine è il non essere capaci di fare compagnia a qualcuno o a qualcosa che sta dentro di noi”, lo aveva letto nel suo libro “L’anno della morte di Ricardo Reis”, che aveva ancora sul tavolino davanti a lei, accanto alla tazza di tè lasciata a metà e ormai freddo.

E pensava alla risposta che avrebbe saputo dare quella gran donna di Marguerite Yourcenar al collega portoghese: “non si è mai del tutto soli: disgraziatamente si è sempre con se stessi”.

 

Aveva scelto di stare sola, nonostante fosse tornata a vivere a casa dei suoi. Li sentiva anche adesso con i loro alterchi, a volte animati altri complici e scherzosi, per opinioni quasi mai concilianti su qualunque argomento proposto da un servizio del tg o dal programma di turno, dove rimbalzavano fino alla nausea le notizie sul Coronavirus, sulla quarantena, sulle beghe tra i politici.

 

Tina aveva deciso di lasciare il mondo fuori, se era costretta nelle quattro mura di casa non intendeva arrovellarsi in inutili complottismi, diatribe sulle responsabilità, sulle competenze, alla fine il succo delle questione non cambiava: erano tutti a casa, a guardare il mondo dalle finestre e dai balconi. E a parte quei giorni in cui il cielo si era gonfiato di tristezza, la primavera era arrivata e con essa la natura sembrava andare avanti anche senza gli umani.

Tina aveva una certa fantasia e poteva immaginare una realtà al rovescio, dove erano loro a trovarsi in cattività in un acquario o in una gabbia, e lì fuori – in una bizzarra inversione dei ruoli – gli animali stavano a spiarli incuriositi.

A volte si perdeva in quelle fantasie un po’ sciocche, non appena alzava il naso da un libro, che aveva il merito di aprire finestre su altri mondi, di invitarla a vivere altre vite, di accompagnarla in iperbolici viaggi dell’immaginazione, e forse Salgari non si sarebbe offeso se gli avesse chiesto in prestito una citazione – anche se l’autore di mille avventure, si riferiva alla scrittura, ma era allo stesso modo valida per il suo caso – perché in fondo leggere, tanto quanto scrivere, era “viaggiare senza la seccatura dei bagagli”, quando tutto il mondo sembrava doversi fermare. Anche se la verità era che per lei era così anche prima del pandemonio, prima che chiudesse la saracinesca sul laboratorio dove lavorava.

 

Evadeva in altre realtà per non doversi confrontare con se stessa e i propri fallimenti probabilmente. Si era accontentata di un lavoro che non era male ma non le piaceva, per stare con un uomo che alla fine aveva preso una strada che l’aveva allontanato da lei.

Un doppio fallimento, ma era stata l’ultima lezione, la definitiva. Non ci credeva più in quelle cavolate sull’amore, l’uomo della vita, tutte stronzate da indigestione di fotoromanzi, per questo alla fine ne aveva fatto un bel falò. Meglio sola.

Chissà perché poi in quei giorni sembrava essere continuamente faccia a faccia con se stessa, forse aveva troppo tempo. Anzi era sicuramente colpa di quel tempo sospeso, come lo chiamava Checco.

 

Tina aveva scartato una geleè al lampone e l’involucro dai colori di primavera raggiunse gli altri, ammucchiati nel posacenere. Aveva smesso così di fumare e in compenso si era accollata quella dipendenza da caramelle per la quale sua madre non le faceva mancare i suoi rimproveri, per paura che tutti quegli zuccheri le facessero schizzare la glicemia, e il diabete era un problema di famiglia.

In realtà, nei momenti in cui i pensieri divagavano troppo, aveva avuto la tentazione di una sigaretta, ma fortunatamente c’era la quarantena a fermarla, il pensiero dell’autocertificazione, di doversi giustificare a un eventuale controllo delle forze dell’ordine. E la voglia della sigaretta passava, tanto c’era la scorta di geleè alla frutta.

 

Aveva smesso di piovere, ma tutto era immobile, un silenzio innaturale. Era passata quella moda dei flashmob canterini dai balconi, anche se i tricolori continuavano ad agitarsi da ringhiere e davanzali. Il display del cellulare si illuminò e vide la notifica di un messaggio di Checco.

Non sapeva bene perché gli avesse risposto la prima volta. Gli aveva perfino lasciato intendere che sarebbe uscita con lui per un caffè, se non fosse stato che poi il decreto li aveva barricati in casa e quello scambio di messaggi era diventato più frequente.

 

Sapeva di piacergli, non era un mistero. Era stato fin troppo chiaro, più volte, ma forse lei non lo era altrettanto. Non lo lesse neanche il messaggio, tergiversava sempre, prendeva tempo, a volte rispondeva anche in maniera evasiva, stentata, formale. Non voleva dare false aspettative.

È vero, alla fine rispondeva comunque. A volte in quei messaggi, a spizzichi e bocconi, le pareva di aver confessato un pezzo della propria vita e questo dava a Tina la sensazione di aver concesso troppo di sé.
Checco avrebbe frainteso.

Sapeva che gli stava dando l’idea sbagliata.
Forse doveva essere chiara, non lasciare che l’immaginazione di lui potesse costruire chissà quale castello in aria, come quelli che tirava su lei quando finiva per immedesimarsi troppo nelle storie dei libri che leggeva.

Anche quella era colpa del tempo sospeso. Continuava a rispondergli per la noia di quelle giornate tutte uguali. Ma in fondo sapeva che, il giorno in cui sarebbe stati liberi di scendere in strada – con o senza mascherine, a un metro distanza non importava – quel caffè con lui, probabilmente, non sarebbe andata a prenderlo davvero.______

Lecce, 19 aprile 2020

Gli avvenimenti qui raccontati sono di  fantasia. Ogni riferimento a fatti o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.______

Sara Foti Sciavaliere, 37 anni, giornalista/blogger, guida/accompagnatrice turistica, di origini pugliesi, è vissuta tra Calabria e Sicilia, ma ha deciso di mettere radici in Salento.  “Piacevolissimo, avvincente, intrigante“: è stato definito così dalla critica il suo romanzo d’esordio, appena uscito, da pochi giorni, per le Edizioni Il Raggio Verde, “La Sposa del Chiostro“.

 

Giuseppe Puppo, 62 anni, giornalista di cronaca, attualità e cultura, leccese, ha collaborato a quotidiani e settimanali, ed ha scritto diversi libri di inchieste e approfondimenti, e cinque opere teatrali. Da dieci anni è tornato nella sua città di origine, dove ha fondato il quotidiano leccecronaca.it che dirige.

 

Giuseppe Mauro, 23 anni, di Galatina, dopo la maturità classica ha intrapreso gli studi di “Design della Comunicazione” presso il Politecnico di Milano. Nel 2018 pubblica per iQdB Edizioni il suo primo ebook, Onda Type, che si posiziona al primo posto nella classifica Amazon, nella sezione “Design”. È appassionato di cinema e fumetti.

 

 

 

 

 

 

 

Category: Cultura

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