QUARANTA ANNI, DALL’IDEAZIONE DEL PROGETTO, ALLA REALIZZAZIONE. E’ APPENA USCITO “Cut the tongue”, MEMORABILE CONCEPT ALBUM DI PROGRESSIVE ROCK. VE NE RACCONTIAMO ANTEFATTO, FATTO E ASCOLTO COMPLETO

| 13 Dicembre 2020 | 0 Comments

di Roberto Molle______

ANTEFATTO

Il Progressive è stato per gli adolescenti degli anni settanta una sorta di disneyland dei suoni. Avevo undici anni quando i Genesis pubblicarono “Foxtrot”, e solo due in più quando con il doppio album “The lamb lies down on Broadway”, Peter Gabriel decise di tracciare un solco profondo tra quel genere che cominciava a farsi farraginoso (e autoreferenziale) e un nuovo inizio che partisse dall’elaborazione delle radici del ritmo e facesse dell’essenziale l’uso di strumenti musicali.

A quell’età andavo ad ascoltare musica a casa di un cugino più grande che vestiva come un hippy, l’unico che avesse un giradischi e album di artisti che mi incuriosivano molto. Dal Battisti de “Il mio canto libero” e “Anima latina” al monumentale doppio live “Made in Japan” dei Deep Purple, fino a quelli con le copertine più strane dei Jethro Tull, degli Yes, dei Genesis, dei Caravan e degli Emerson Lake e Palmer.

 

Il Prog-rock come veniva confidenzialmente chiamato, fu un mare in piena. Un universo sonoro che travolgeva tutte le influenze che trovava sulla sua strada e le fagocitava. Quel tipo di rock è stata definito in tanti modi: sinfonico, melodico, barocco, e così via senza soluzione di continuità. Di solito si componeva di lunghe suite e prendeva la denominazione di concept-album.

Facendola breve il prog mi ha accompagnato per molto tempo, deliziandomi con mille suggestioni ed effetti speciali sparati da sintetizzatori che via via (negli anni) si facevano sempre più sofisticati e sempre più assurgevano a strumento predominante nella composizione dei musicisti. Emblematico è il caso di Rick Wakeman, tastierista degli Yes che lasciò il gruppo per una carriera solistica ‘barricandosi’ dietro montagne di tastiere e sintetizzatori e realizzando dischi (qualcuno memorabile, altri che rasentavano il kitch) colmi di suoni sintetici.

 

Poi arrivò il Punk, anche se un po’ tardi per me. Era il 1980 e Clash, Ramones, Joy Division, The Sound e molteplici altre sconosciute realtà soniche aprirono altri mondi, nuovi orizzonti. Il Progressive per come lo si era inteso non esisteva più. Oramai quasi un fardello per i musicisti che lo avevano creato e alimentato per tanto tempo, tracciava un’aura di vetustà anche intorno a loro. In molti deposero le armi, alcuni diversificarono reinventandosi dignitosamente, altri sfiorando il ridicolo.

Ho comunque sempre custodito nella mia discoteca essenziale alcuni dischi di quel periodo (dai Jethro Tull ai Genesis, qualcosa dei Pink Floyd, dei Soft Machine, King Crimson, etc.), perché va detto: nel mare magnum del prog ci sono stati album miliari che sono considerati da più parti fondamentali per l’evoluzione del rock. Un titolo su tutti: “Rock Bottom” di Robert Wyatt (già cantante e musicista polistrumentista di Soft Machine e Machting Mole).

 

Tre anni fa ho assistito a un concerto all’interno del teatro Ducale di Cavallino.

Ci ero andato perché avevo saputo di un gruppo di musicisti salentini che in passato si erano mossi in ambito prog ed erano riusciti a coinvolgere a suonare con loro una leggende del progressive mondiale: sir Richard Sinclair (musicista inglese tra i più importanti della scena di Canterbury, fondatore di ‘Wild Flowers’, ‘Hatfiled and the North’ e ‘Caravan’, uno dei gruppi progressive attivi in Inghilterra già verso la fine degli anni Sessanta, nella foto sotto) che da un po’ di anni si è stabilito a vivere in Puglia nelle campagne della valle d’Itria.

Il concerto non fu altro che una riproposizione di buona parte dell’album “The dark side of the moon” dei Pink Floyd” e l’esecuzione di alcuni brani presentati in anteprima che sarebbero diventati parte integrante di un nuovo progetto chiamato Julius.

In quel concerto, al di là dell’esibizione dell’immenso Sinclair e la bravura dei musicisti (tutti professionisti impegnati a vario titolo in progetti internazionali), mi colpì l’emozione che visibilmente traspariva dal volto di uno di loro che, tra l’altro, avevo conosciuto per un’intervista telefonica qualche giorno prima; rispondeva al nome di Giuseppe Chiriatti (è lui il Julius titolare del progetto, nella foto sotto) ed era anche l’artefice di “Prog On”, una bella iniziativa che sopravvive ancora oggi coinvolgendo musicisti e appassionati di musica, proponendo organizzazioni di eventi, concerti e attività legate alla loro diffusione.

 

In alcuni brani del progetto Julius il canto era affidato a una giovane donna che sembrava divertirsi molto e a proprio agio nel bel mezzo di quelle lunga e articolata session tra musicisti professionisti. La ragazza in questione si chiama Bianca (nella foto sotto), è figlia dello stesso Chiriatti e sembra accompagnare spesso il padre nelle sue scorribande sonore incastonate tra gli impegni lavorativi di entrambi: lui è avvocato, lei giornalista.

Ricordo un paio di anni fa, ero a un concerto dei Negramaro allo stadio di Via del Mare, dovevo fare una recensione per leccecronaca.it e in tribuna stampa a poco da me ho riconosciuto Bianca Chiriatti che era lì per la Gazzetta del Mezzogiorno. Vero che i Negramaro non sono un gruppo proprio nelle mie corde, per cui stancamente mi limitavo ad annotare appunti su un taccuino e che, probabilmente, lei sarà una fan del gruppo e per quello digitava compulsivamente sul cellulare quello che gli passava per la testa mandando direttamente online sul sito del giornale, ma ho riconosciuto subito quel mood. Stesso piglio di quella sera al concerto: leggerezza, curiosità, divertimento e un viso acqua e sapone che non guasta mai.

 

FATTO

Da un paio di settimane erano cominciate a girare voci sui social poi confermate da mail arrivate in redazione, dell’imminente pubblicazione di un disco progressive: un concept-album dal titolo “Cut the tongue” a firma di Julius project.

Un flash e due conti: Julius (alias Giuseppe Chiriatti) dopo tre anni aveva completato quel lavoro anticipato da qualche brano quella sera al concerto di Cavallino. A quel punto la curiosità ha preso il sopravvento, la necessità di capire come ci si può imbarcare in un progetto del genere fuori tempo massimo mi ha spinto a conoscere la genesi di “Cut the toungue”.

 

Per la verità è lo stesso Julius a raccontare lo sviluppo dell’intero progetto con delle note all’interno della copertina del cd.

Era il 1978, in una casa nella campagna leccese il giovane musicista a contatto con la natura vive un particolare stato di ispirazione e compone alcuni brani che, insieme ad altri, scritti nell’arco di tre anni rimarranno nel cassetto. La parabola discendente del Progressive è un fatto ormai incontrovertibile.

Sono i primi anni Ottanta e post-punk e new wave rappresentano l’alternativa a quella musica complessa e tecnicamente perfetta ma che negli anni si è caricata di arrangiamenti pomposi e si è fatta barocca. Julius desiste dal dare a quelle canzoni che ha scritto una forma compiuta di album.

Passano ventiquattro anni e quel cassetto viene riaperto proprio da Bianca che rinvenendo i testi delle canzoni si rende conto che tra le pieghe delle parole e delle note composte dal padre c’è un racconto che ha il diritto di venire alla luce.

Come nella migliore tradizione progressive la storia si snoda attraverso tutti i brani e racconta di un ragazzo che attraverso un percorso di crescita interiore non privo di esperienze dolorose, arriverà a maturare e ad accettare la solitudine come via per ritrovare se stesso.

Non ci vuole molto per Julius a rendersi conto che i tempi sono adatti per rimettere mano a quelle composizioni e farne un disco. Agli sgoccioli della seconda decade del nuovo millennio l’approccio degli appassionati di musica è cambiato. Esiste oramai una diversa percezione che non cataloga più la musica tra vecchia e nuova, piuttosto si è fatta strada la tendenza a rispettare ogni genere musicale e travalicare le mode.

E così, quasi allo scadere di un anno funesto che ha penalizzato tutto e tutti, dove qualsiasi segno di speranza è il benvenuto, ecco che arriva questo disco a risvegliare emozioni tenute in incubazione troppo a lungo e a dimostrare che niente va lasciato non detto.

 

ASCOLTO.

“Cut the toungue” esce a quarant’anni di distanza dalla posa della sua ‘prima pietra’, e probabilmente la composizione risente in qualche modo dello scorrere del tempo.

Ho ascoltato questo disco più e più volte, lo ammetto. Perché? Semplicemente per il fatto che mi è piaciuto molto.

 

Sulle prime ho pensato si trattasse dell’ennesima operazione nostalgica di musicisti frustrati col rammarico di non aver inciso un disco almeno una volta nella vita. Poi, entrando in quel mood fatto di diciotto brani legati tra loro da un filo sottile che li rendeva una suite unica, si è fatto tutto più chiaro e ho capito di avere a che fare con un’opera rock (certo la definizione è un po’ desueta ma può dare il senso).

Un’opera rock con attori e personaggi di ottimo livello.

Julius è autore di testi e musiche e canta in un paio di brani. La sorpresa più grande è stata ascoltare Bianca (per l’occasione diventata Bianca Berry) che prende le parti di Boy (il ragazzo protagonista) e canta con una voce forse lontana dai canoni prog e più vicina a certe atmosfere da musical ma, paradossalmente, il suo apporto vocale è ‘l’invenzione’ che dà all’album quel tocco di freschezza e leggerezza che aiuta a svernare il concetto di progressive. E poi, quante donne si sono mai cimentate con questo genere ritenuto prevalentemente territorio di maschi? Mi vengono solo pochi nomi: Sophia Baccini (Osanna, Delirium), Barbara Gaskin (Egg, Spirogyra e National Healt), Donella Del Monaco (Opus Avantra).

 

Il disco si apre con “The fog” e subito il cuore comincia a battere forte, è come vivere un déjà-vu a occhi aperti. La musica proietta ologrammi su uno schermo immaginario e, una ad una le sagome si materializzano: il Peter Gabriel di “Silent sun” con il flauto dorato e quasi scalpato avanza sulla scena, Tony Banks circondato di tastiere intona “Firth of fifth”, Steve Hackett si concentra in un riff di chitarra celestiale.

Via via che i brani si snodano sul filo del concept, ecco materializzarsi altre figure liberate dalle suggestioni che la musica regala. Dai Pink Floyd di The dark side alla Premiata Forneria Marconi della luna nuova, dal Joe Jackson di “Blaze of glory” ai Deep Purple ingentiliti sulla via del Giappone, fino a certi echi di folk celtico incrociato al miglior jazz-rock di timbro Weather Report.

A certificare la bellezza e le migliori intenzioni di “Cut the toungue” si materializza in carne e ossa Richard Sinclair che regala al progetto uno splendido cameo cantando nella title-track.

 

“Cut the toungue” è un disco che toglie il fiato, riporta indietro nel tempo e libera dalle nostalgie. Tocca ogni corda che si sia ammutinata e aiuta a ricucire strappi emozionali che attendevano da molto di essere rimarginati.

 

 

Hanno suonato e cantato in “Cut the toungue”:

Julius: tastiere (organo Hammond, voce solista); Bianca Berry (voce, cori); Filippo Dolfini (batteria e percussioni); Marco Croci (Basso); Dario Guidotti (flauto, voce solista); Francesco Marra (chitarra solista, classica e 12 corde); Mario Manfreda (chitarra solista e 12 corde); Paolo Dolfini (tastiere, minimoog, pianoforte). Ospiti: Richard Sinclair (voce solista); Martina Chiriatti (voce); Egidio Presicce (sax tenore); Daniele Bianchini (chitarre); Flavio Scansani (chitarra solista e 12 corde).

 

 

La prewiew di “Cut the toungue”

 

Category: Cultura

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