L’INTERVISTA / QUEL GIORNO CON MILES DAVIS E ALTRI INCONTRI DECISIVI. A leccecronaca.it ENZO TORREGROSSA RACCONTA I CINQUANTA ANNI DELLA SUA PASSIONE PER LA MUSICA JAZZ

| 15 Giugno 2023 | 0 Comments

di Francesco Rodolfo Russo ______

Nel corso dell’Exposition Universelle de Paris, inaugurata il 14 aprile 1900 dal Presidente della Repubblica Emile Loubet, i visitatori ascoltarono per la prima volta una musica singolare ed emozionante che proveniva dall’America e si chiamava Ragtime. La musica rag fu concepita inizialmente da musicisti neri esclusivamente per intrattenere la propria gente. Successivamente riuscì ad affermarsi a tal punto che nel 1897 Tom Turpin pubblicò «Harlem Rag», il primo rag divulgato da un afroamericano.

Arrivò il Blues che secondo un vecchio violinista di New Orleans esisteva da sempre. Infine giunse il Jazz che nacque dalla fusione di Ragtime, Blues, musica bandistica e musica da ballo sincopata.

Dopo la sintetica premessa, di Jazz parliamo con Enzo Torregrossa, contrabbassista e compositore catanese, fin dagli anni Ottanta attivo in Italia e all’estero con collaborazioni prestigiose,dischi, concerti e musiche da film, fra cui la colonna sonora di Sud diretto da Gabriele Salvatores, che nel 1992 ottiene il premio Globo d’Oro e il Nastro d’Argento come migliore colonna sonora dell’anno.

Quali sono le caratteristiche più distintive del Jazz?

Quella stravolgente evoluzione musicale che avveniva negli Stati Uniti verso la fine dell’Ottocento colpì molto i musicisti europei come Puccini, Stravinskij e altri che rimasero affascinati soprattutto dalla nuova concezione ritmica. Il ritmo unito alle conoscenze armoniche europee ha dato vita al cosiddetto jazz o meglio musica afroamericana. L’unione di culture diverse ha prodotto l’interessantissima evoluzione musicale che oggi conosciamo.

Possiamo dire che lo spartito nel Jazz è rappresentato solamente dallo “scheletro” di ciò che sarà suonato durante l’esibizione?

Il suo punto di forza è l’improvvisazione. Nella forma più classica lo spartito rappresenta un punto di riferimento in cui sono scritte le note che definiscono il tema principale e gli accordi che lo compongono stabilendo una struttura di base che poi viene ripetuta come schema in forma improvvisativa dai vari solisti presenti nel gruppo. Nella forma più evoluta le parti riguardanti il tema da esporre possono intervenire con diversi richiami durante l’esposizione della composizione alternando parti scritte a parti improvvisate; ne nasce un intreccio compositivo tra jazz e classico che oggi possiamo ascoltare grazie a tanti musicisti come Herbie Hancock, Chick Corea, Steve Coleman e altri.

È vero che nel Jazz l’influenza del Ragtime è rappresentata dal ritmo sincopato e dalla presenza del pianoforte nel complesso?

Al Ragtime dobbiamo l’inizio dell’avventura del Jazz. Il cosiddetto ritmo sincopato, che ha caratterizzato tutto il Jazz e non di meno il Ragtime, non è altro che lo spostamento degli accenti forti sui movimenti deboli; in sostanza, mentre la musica classica accenta quasi sempre il primo e terzo movimento di una battuta 4/4, il Jazz ne accenta il secondo e il quarto.

Nei primi anni Venti del secolo scorso, in molte performance di Jazz tutti gli strumenti suonavano per l’intera durata del pezzo, con la cornetta che manteneva sempre la linea melodica principale. Da allora che cosa è cambiato?

Il primo cambiamento avviene negli anni Quaranta con la nascita delle famose “Big Band” ma la svolta decisiva verso nuove forme di improvvisazione è degli anni Cinquanta; nonostante fosse un periodo con numerose ferite e contraddizioni socio-culturali  negli Stati Uniti, il Jazz visse un’epoca straordinariamente creativa.

I primi anni Cinquanta vedono l’affermazione del Cool-Jazz e del Jazz californiano e subito dopo il nuovo movimento Hard-Bop. I grandi del Bop, Charlie Parker con l’orchestra d’archi e Dizzy Gillespie con l’orchestra di Jazz Afro-Cubano, tengono orgogliosamente il passo. Le orchestre di Duke Ellington e Count Basie rivivono periodi illuminanti e le grandi cantanti jazz incidono i loro capolavori.

Le grandi case discografiche si interessano al Jazz e nasce la possibilità per i musicisti di registrare la loro musica. Stiamo parlando di Billie Holiday, Ella Fitzgerald e Sarah Vaughan. Hard-Bop e Funky Jazz sono termini che stanno a significare lo “swingare duro”, ma al tempo stesso vicini alla linearità del Cool-Jazz. Tutto ciò dà la possibilità ai musicisti di esprimersi più liberamente e di poter incidere e pubblicare brani assai lunghi e assoli che valorizzano i singoli strumenti. Fu definito Hard-Bop ma chiamato anche Funky-Jazz. Ecco quanti cambiamenti in pochissimi anni e l’evoluzione continua.

Dopo esserti diplomato in contrabbasso al Conservatorio Vincenzo Bellini di Catania, hai frequentato il corso di composizione e direzione d’orchestra a Bologna.Che cosa ti ha insegnato il Conservatorio e che cosa ti ha indirizzato verso il Jazz?

Le mie scelte musicali e la mia linea compositiva nascono dal coinvolgimento che sin da adolescente ho avuto con la musica alternativa al racconto commerciale giornaliero dei media, per cui si sviluppai l’attrazione verso nuove forme musicali quali il Jazz, il Blues, il Soul, il Rock e la musica classica contemporanea. Questo coinvolgimento mi spinse molto presto agli studi classici in Consevatorio e subito dopo a quelli dell’armonia jazz. I suoni del nuovo stile musicale afroamericano mi coinvolsero parecchio fino a diventare parte integrante delle mie composizioni che vengono pubblicate per la prima volta nel 1996 con l’album «Aeon».

Tutte le esperienze sono in qualche modo positive o quanto meno lasciano il segno; così posso dire che gli anni di conservatorio mi hanno permesso di conoscere molti musicisti interessanti e stimolanti per le mie prime composizioni. Purtroppo il nostro Paese non ha mai investito sull’arte e la cultura musicale nello specifico e nonostante un enorme bacino musicale umano siamo un po’ scarsi di nuovi talenti. Bisognerebbe incrementare le conoscenze musicali di base in modo da stimolare l’ascolto di tutte le forme musicali esistenti.

La musica è suono, e la prima cosa che va educata è l’orecchio. Bisognerebbe dare la possibilità agli studenti che non frequentano il Conservatorio di sperimentarne l’ascolto senza confini di genere, pur con il supporto di una guida adeguata?

Certamente. I conservatori di musica attualmente non mi sembrano scuole musicali particolarmente interessanti per uno sviluppo della creatività.

Hai insegnato contrabbasso e basso elettrico jazz all’Istituto superiore di studi musicali Vincenzo Bellini di Catania. Da studente, che forse voleva cambiare qualcosa nelle lezioni che riceveva, a insegnante: che “impronta” sei riuscito a dare?

Ho cercato di impostare un nuovo approccio allo studio un po’ più dinamico rispetto al passato proponendo prima di tutto l’esecuzione degli studi musicali proposti con le varie difficoltà e lasciando le definizioni a un secondo momento, affiancando la conoscenza armonica di ciò che si stava suonando.

Hai trascorso una giornata con Miles Davis, un compositore raffinato che penso abbia posto le basi per quasi tutto ciò che ascoltiamo oggi. Che cosa ti rimase allora di quell’incontro e che cosa ti ritrovi adesso?

Un incontro interessantissimo; un personaggio unico nella storia della musica jazz. Capitò per caso un concerto a Imola organizzato da un amico musicista ed essendo non programmato ma inserito in una giornata di riposo del tour di Miles, all’ultimo momento bisognava gestire l’organizzazione dell’esibizione e mi venne proposto di accogliere i musicisti al loro arrivo in aeroporto.

Mi prestai all’evento e mi presentai a Miles come musicista e occasionalmete come accompagnatore suo personale. La cosa fu molto gradita da entrambi e passai un’intera giornata facendo il turista in giro per Bologna con la conclusione in albergo seduti accanto a un pianoforte riguardando insieme gli accordi degli standard da lui suonati nel periodo Cool. Fantastico.

Lavorare con i grandi della musica leggera: Mia Martini per diciotto mesi e Lucio Dalla che da ragazzino, a detta di Pupi Avati, suonava il clarinetto da dio e a 15-16 anni già suonava in jam session con Chet Baker, in che cosa ti ha fatto crescere?

Ho avuto la fortuna di fare un tour con la grande Mia Martini che reputo una delle migliori voci jazz-pop italian; inoltre diverse Jam con Lucio Dalla, Francesco Guccini, Memo Remigi e tanti altri. Questo mi ha permesso di conoscere stili e approcci diversi che ogni artista ha con la musica, arricchendomi di nuove esperienze musicali che hanno influito sulle mie composizioni e i miei arrangiamenti.

Pensi che “fare musica” a scuola possa essere utile alla collaborazione, alla coesione sociale e alla solidarietà fra gli studenti?

Sicuramente. La disciplina musicale nelle scuole italiane è sottovalutata ritenendola poco importante e anche nelle scuole musicali non si avvale di un sostegno propositivo adeguato. Bisognerebbe dedicare più ore di insegnamento sia come cultura generale sia come specificità a chi intraprende lo studio dello strumento nei licei musicali.

Negli anni Ottanta hai suonato nel quintetto di Lilian Terry, poi con Dizzy Gillespie, poi… la tua biografia parla per te. Nella musica, nella letteratura, nella pittura e così via: il vero artista mai smette di studiare, tu continui a farlo?

Quelle che hai citato sono state esperienze indimenticabili che mi accompagneranno per sempre anche nella vena compositiva. Certamente lo studio dello strumento fa parte del tuo cibo giornaliero, inoltre accanto a esso c’è l’uso del pianoforte per mettere a punto le scritture; non mancano poi i suoni, che ti circondano durante una giornata, che si aggiungono all’ispirazione e alla creazione delle composizioni.

Category: Cultura

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