INSTANT STORY, UN RACCONTO SCRITTO A QUATTRO MANI SULL’ATTUALITA’ / Piazzale Rudiae Rozova Dolin

| 5 Aprile 2020 | 0 Comments

di Sara Foti Sciavaliere e Giuseppe Puppo______

Illustrazione di Giuseppe Mauro______

La consapevolezza acquisita da noi figli del Novecento che siamo tutti uno, nessuno e centomila è misteriosa e con essa Pirandello ha gettato molti in confusione: sapere di avere un’altra dimensione che scorre parallela, come i binari del treno su cui viaggia la nostra esistenza quotidiana, e di stare perennemente in bilico su quale meglio procedere, è terribilmente affascinante, quanto ansiosamente pericoloso.

Rimane sempre da stabilire e decidere quale sia quella più agevole, più comoda, per quanto magari noiosa, oppure quella più autentica e più appagante, perché segreta, e in quanto spinta dall’eccitazione.

 

Una sera sul finire della seconda settimana di febbraio del 2020, a Lecce, il dottore commercialista Erio Signore, di 59 anni, al primo semaforo utile, sui Viali, senza mettere la freccia, guadagnandosi così una buona dose di sentitissime invocazioni ai suoi incolpevoli defunti da parte degli automobilisti dietro di lui, prese tutto d’un tratto la corsia di sinistra, e quando fu dall’altra parte, inversione di marcia compiuta, chiese soddisfatto, con voce gaudente, a Mercedes di chiamare il geometra Pippi Lattante.

“Non ho capito, puoi ripetere?” – fu la risposta che ottenne, dopo qualche secondo di imbarazzato silenzio.

Contrariamente ad altre volte in circostanze simili, le rifece la richiesta del tutto calmo, anzi suadente – “Lattante….Trova Lattante, e chiamalo!”  e aggiunse poco dopo, tranquillo, anzi felice, sillabando: “Pi pi La tan te…”.

Dove vuoi andare, non ho capito!” fu la nuova risposta che ottenne a breve.

“Lattante…Non scattante…Lattante, Pippi, geometra, o come cazzo sta registrato in rubrica!” – cominciò allora ad alterarsi, ma senza inveire contro la voce metallica.

Poi, raggiunto da una nuova contestazione  – “Non ho capito, puoi ripetere?” – incredibilmente senza bestemmiare, decise di lasciar perdere, per il momento.

Tanto mancava poco a casa: avrebbe chiamato fra pochi minuti, componendo egli stesso il numero con lo smartphone in mano.

Giunto davanti al cancello dei garage, azionò il telecomando e si fermò prima di imboccare la rampa.

Optò allora per un messaggio vocale WhatsApp, più facile, meno impegnativo e incredibilmente risolutivo, dal momento che non ammetteva repliche.

Inviato che l’ebbe, con una sconfinata soddisfazione per aver disdetto l’appuntamento di lavoro di contabilità condominiale, spense del tutto il telefono, tirò fuori la vecchia Punto, mise dentro la nuova Mercedes, la chiuse dentro, e guadagnò la pool position con l’utilitaria scassata e provatissima, che infatti si inceppò sulla rampa in salita.

Decise di passare dal vicino benzinaio, per fare il pieno e, giacché c’era, di far dare una controllatina un po’ a tutto.

Stava appena tramontando, di tempo ce n’era, hai voglia!

Era già buio, così, quando varcò la soglia di casa.

Cominciò a spogliarsi, per cambiarsi. E mentre si cambiava, cominciò a fare avanti e indietro con i pensieri, mentre il cuore prese a dare scossoni di assestamento, alla situazione che si prospettava di là a poco, anzi, a pochissimo.

Si tolse le scarpe nere eleganti, che depose nel ripostiglio; levò il completo blu, lo ripose ordinato nell’armadio, giacca e pantaloni nella medesima gruccia; nell’altro scomparto, nella mensola di sopra, piegata, la cravatta, in quella di sotto, appesa, la camicia stilosa che aveva portato solo poche ore e che dunque pensò di rimettere l’indomani. Tenne solo boxer e calzini, poi subito dopo levò anche quelli, che andò a gettare nel bidoncino del bagno, avendoli considerati troppo di lusso, perché firmati.

Ebbe un’erezione, mentre prendeva ad uno ad uno i cambi, con cuore che rimbombava, perché aveva cominciato a pensare nemmeno a quanto sarebbe successo di lì a poco, ma a quanto era successo da lì indietro, negli ultimi mesi.

L’erezione gli passò là sotto e gli ritornò così subito dopo nel cervello.

Tanto quando avrai voglia e non potrai più resistere senza vedermi, sai dove trovarmi” gli aveva detto una volta.

Aveva sempre cercato di non darle riferimenti di nessun tipo, men che mai il suo numero di telefono, o altre tracce che potessero permetterle di identificarlo, nella sua vera vita, anche se la vita vera era solamente quelle volte, una a settimana, di solito, quando, da tanto tempo ormai, andava a trovarla, al solito posto.

Temeva – o forse sperava? – di essere ricattato.

Eppure con lui lei era stata sempre corretta, discreta e riservata, mai che avesse cercato di superare quei labili confini su cui egli credeva di aver posto dei limiti.

Ma dentro quei confini, ogni volta facevano l’una un passo verso l’alto, l’altro verso il basso, e più lo trattava così, più le si sentiva attratto in maniera irresistibile.

Sarà così per sempre. Per sempre…” gli aveva detto un’altra volta

Aveva cercato di resistere, questo sì, ogni volta si diceva che sarebbe stata quella l’ultima volta. Ma poi ogni volta lo rifaceva, regolarmente.

Più sei buono, più ti trattano male. Più ti trattano male, più lo vuoi.  Così è” – gli  aveva detto una sera.

Aveva messo le scarpe da tennis, un paio di improbabili pantaloni rossi, zinzuli incredibili addosso, e un giubbotto vagamente freak&gay come l’intimo.

“Così è” e preparò le banconote, ripiegandole intorno alla patente di guida.

La Lecce bigotta, pettegola e ridanciana non lo avrebbe riconosciuto neanche questa volta, non lo avrebbe mai avuto.

“Tanto sai dove trovarmi “ e prese le chiavi dell’auto, e quelle di casa.

“Per sempre…” ed ebbe un tuffo al cuore, mentre metteva in moto.

 

 

Si fece lasciare davanti alla panetteria, a quell’ora era ormai chiusa e quindi non l’avrebbero notata  scendere dalla berlina, strizzata in quell’attillato tubino di pizzo sintetico e finta pelle che permetteva di sbirciare l’intimo appena scostava il giubbino di piumino. Ignorò la mano di quell’uomo che aveva tentato ancora di scivolarle tra le cosce, aveva già avuto quello per cui aveva pagato e non avrebbe avuto altro per quella sera, quindi scese in fretta dall’auto e si incamminò sui tacchi degli stivali verso piazzale Rudiae.

Che giorno della settimana era? Passavano tutti uguali e solo l’orologio della farmacia le ricordava che era venerdì, ed erano quasi le 22. Doveva raggiungere il suo angolo, lui la trovava lì, senza indugi, senza domande, le sorrideva dal finestrino abbassato e la faceva salire sulla Punto dalla marmitta un po’ scassata, in fretta prima che una pattuglia della polizia locale li potesse fermare.

Era l’appuntamento del venerdì, se non tutti, quello era il giorno e l’ora in cui passava. La pagava bene, non badava al tempo. A volte parlavano, eppure non sapeva nulla di lui. Faceva il vago e lei non domandava troppo, in fondo non le importava. Adesso ci pensava solo perché quell’uomo era diventato un punto fermo in quel suo girone dell’inferno dove tutto passava e non tornava, dove la sua vita non le apparteneva e perfino il suo passato, i suoi ricordi di una vita precedente a quella sembravano non fossero i propri.

Di lui, solo una cosa non aveva capito: perché una volta le avesse chiesto di indossare, tutta nuda, una pelliccia…Tutto il resto lo aveva capito, questo no. “Non ce l’ho! Me la compri tu?!?” – si limitò a rispondergli.

Ora Mila si era stretta nel piumino, dondolandosi sui tacchi. I fari di una macchina l’avevano abbagliata passando e non si accorse subito della tizia di Lecce che batteva di solito più in là. Le parlò a raffica e non capì ogni parola, colse più che altro il senso. “Hanno fottuto quel magnaccio. Che stai a fare ancora qui, sulla strada?”, le aveva detto infine, piantandola lì quando un nuovo cliente aveva rallentato nei pressi del suo angolo di marciapiedi e si allontanò sculettando. Boyan era stato arrestato quel pomeriggio, sulla strada statale 101, vicino alle sue compagne costrette a vendersi per lui sulla complanare. Ecco perché non si era ancora presentato quella sera. Buttò lo sguardo più indietro verso la strada che portava alla stazione, lì c’era Kalina, tra loro era la più giovane e condividevano quel monolocale dove erano costrette da mesi. Era giovane ma si vendeva bene, la vide contrattare il suo prezzo, ma la raggiunse in fretta e la portò via.

Lud si ti, Mila?” le urlò nella loro lingua, strappandosi dalla sua presa. Non era impazzita e pensò per un istante come potesse essere ancora lucida in effetti. “Arestuvakha Boyan!” le aveva risposto senza troppe chiacchiere e si incamminò sotto il cavalcavia ferroviario. Se Kalina voleva seguirla buon per lei, altrimenti ognuno per sé.

 

Mila aveva capito che sarebbe tornata a casa, quando i ricordi incominciarono ad assalirla all’improvviso. Senza le minacce di Boyan e in quel luogo che la polizia le aveva consigliato per avere protezione finché non si fosse presentata in tribunale per il processo al suo carceriere, la sua mente aveva riafferrato la sua vita prima di quell’incubo.

Mancava dalla Bulgaria da due anni e fino a una settimana prima non riusciva ad aggrapparsi a quegli stessi ricordi perché troppo sbiaditi, ma giorno dopo giorno erano tornati chiari ed era cresciuta l’impellenza di tornare nella sua terra.

Era quasi scappata dalla Rozova Dolin, la Valle delle Rose, e adesso era l’unico posto dove voleva essere.

Presto sarebbe arrivata la primavera e poi a maggio la vallata si sarebbe coperta di fiori, un intenso e persistente profumo di rose si spandeva fino a giugno, fino a quando sarebbe stata raccolta l’ultima rosa. Sua madre e le sue zie, e ancora prima le nonne, avevano partecipato alla raccolta. Servivano mani di donna pazienti e abili per tagliare uno a uno i gambi spinosi. Poi le ceste di vimine cariche di fiori venivano portate agli stabilimenti della zona dove estraevano gli oli essenziali, c’è n’era uno anche nel suo villaggio natio.

Ricordò da bambina quando con i suoi fratelli e il padre erano saliti alle rovine delle fortezza medievale in cima a una ripida collina a sud dei Monti Balcani, la Valle delle rose sotto di loro era una vista straordinaria, da togliere il fiato.

Mila vedeva scorrere la sua vita come le diapositive di una pellicola, era quello che si diceva succedeva a chi era a un passo dall’ultimo respiro. Si sentì d’un tratto come una condannata a morte.

Le notizie di quei giorni la stavano impressionando. Parlavano di contagi nel Nord Italia, una specie di influenza arrivata dalla Cina, ma qualcuno finiva in ospedale con complicazioni respiratorie. Morivano senza rivedere i loro familiari.

Poi qualche giorno prima un caso in un paese della provincia di Taranto, era tornato dalla zona dei focolai di quella malattia sconosciuta che avanzava come un incendio che non riuscivano a domare e le persone finivano per essere scintille che rischiavano di accendere altri fuochi dove passavano.

Mila aveva paura.

Si parlava di quarantena per chi era a rischio contagio e questo significava trovarsi rinchiusa tra quattro mura, e lei non voleva di nuovo sentirsi privata della sua libertà, ora che l’aveva riavuta. Non voleva sentirsi di nuovo in trappola, minacciata. Forse stava facendo un dramma per nulla, ma non intendeva rimanere lì a scoprire se si sbagliasse o meno. Il tempo le avrebbe dato ragione o torto, ma intanto avrebbe fatto il suo passo, mettendo le distanze da quella nuova minaccia invisibile. Non importava che avesse promesso alla polizia che avrebbe testimoniato contro Boyan, lei voleva tornare a casa sua, riabbracciare sua madre, ed era quello che avrebbe fatto.

 

 

Sentiva l’eccitazione nei pantaloni. A Erio bastava solo il pensiero degli occhi celesti di Mila e del suo corpo perfetto per accendergli quella voglia di lei. Non poteva resistere senza vederla ancora, al punto che quella deviazione per arrivare al Piazzale Rudiae lo stava irritando, e non poco. La pazienza non era la sua virtù, di sicuro, ma i suoi vizi in fondo erano tanti.

I semafori fastidiosamente erano in combutta per rallentarlo, giustificando ogni nuova imprecazione verso il Cielo e chi ancora suo malgrado si trovava in terra.  Un impaziente e irascibile bestemmiatore seriale che stava andando a puttane. Alla fine dei suoi giorni avrebbe avuto il suo castigo, ma intanto andava a prendersi il suo premio.

Era ormai nelle vie del sesso, così avevano definito su qualche giornale locale quel quadrilatero di Lecce che dalla stazione scivolava verso la via Carmiano Vecchia. Adocchiò all’istante l’angolo dove di solito trovava la ragazza.

Non c’era, rallentò guardando con più attenzione, ma ormai stava lì.

Una donna – non più giovane eppure con il culo ancora tenuto su da un pantalone di pelle che la vestiva come una seconda pelle – gli lanciò più volte un’occhiata incuriosita, dopo aver mandato a fanculo un potenziale cliente, probabilmente troppo tirchio.
Non poteva fermarsi lì, ma quella si avvicinò prima che si decidesse ad accelerare e andar via. “Cerchi Mila, vero? Ti ho visto con lei”. Una buona memoria che date le circostanze non le riconosceva alcun merito. Però lui voleva sapere dove fosse la dannata ragazza, quindi annuì.
“È andata via, e non penso tornerà” gli spiegò, prima di lanciargli uno sguardo malizioso tra le gambe. “Ma vedo che hai bisogno di una mano, ma anche del resto se vuoi” gli ammiccò. Il suo profumo dolciastro e dozzinale lo raggiunse come uno schiaffo ai sensi e, se per un secondo aveva pensato di accogliere l’invito e sfogare su di lei la frustrazione per quella voglia insoddisfatta, sentì l’eccitazione e l’adrenalina smorzarsi.

Poi Erio scorse il riflesso di un lampeggiante nello specchietto retrovisore. La municipale. Bando agli indugi, era tempo di andarsene anche per lui. La voglia era passata e non voleva guai. Ignorò così la proposta della donna e senza degnarla di una risposta si allontanò in fretta. Non intendeva pagare 300euro di multa, se l’avessero beccato lì, e peggio ancora se lo avessero riconosciuto.

Si sentiva però beffato da quella ragazza, come se lo avesse ingannato, sedotto, stregato e poi abbandonato lì, sul ciglio della strada a sbavare per lei. Peggio di un cane randagio.

 

Aveva poi letto sul quotidiano dell’arresto di un protettore, al bar, giusto qualche mattina dopo. Un tale Boyan e con lui erano state fermate delle ragazze costrette a prostituirsi per lui, tre bulgare, scrivevano.

Era un caso? Anche Mila veniva dalla Bulgaria, gli parve di ricordare. Poteva c’entrare forse qualcosa con la sua sparizione. Cosa avrebbe fatto quella ragazza ora? Non era più arrabbiato. Quel “Per sempre” era una frase di circostanza e la loro una transazione economica, il più comune e antico do ut des. Sfogliò il giornale, pensando di poter cambiare allo stesso modo pagina, a quella giornata, ai suoi pensieri. Doveva scacciarla, non era affar suo.

E poi adesso c’era quella faccenda del virus misterioso, si parlava di rischio epidemia. Qualcosa di simile alla Sars, ma mai peggiore della Spagnola per il numero di morti. Chi lanciava allarmi e chi quietava gli animi. Gli esperti dichiaravano comunque l’importanza della prevenzione dal contagio, possibile se si assicuravano distanze di sicurezza tra le persone, ridurre a minimo i contatti.

Ma lui, lui non avrebbe resistito a starle lontano se avesse saputo di trovarla lì.
Eccola che ritornava a imporsi, un’ossessione. Era Mila il suo virus.

Lisciò il colletto inamidato della camicia e guardò oltre la vetrata del bar, sul parcheggio dell’ex Foro Boario, le macchine fitte e allineate, ancora oltre i bus in movimento e il solito vento leccese che scuoteva le palme.

Eppure la vita sembrava andare avanti, come sempre. Baci e abbracci, strette di mano. Qualche colpo di tosse, male di stagione probabilmente, in quel febbraio che sembrava aver chiamato una primavera anticipata. Non molti prendevano seriamente le minacce del Coronavirus. I più giovani, soprattutto, erano in preda a una sorta di delirio di onnipotenza visto che le vittime al momento erano pazienti molto anziani, con patologie pregresse.

Una figura che scivolò tra le altre, passando al di là dei tavolini di legno all’esterno e tirandosi appresso un piccolo trolley.

Sembrava lei ma allo stesso tempo gli parve diversa.

Scomparve alla sua vista per poi entrare nel bar e accostarsi al bancone e sbirciare nella vetrina tra pasticciotti, cornetti, muffin e donuts.

Spostò quasi timida i capelli dietro l’orecchio e indicò qualcosa. Il viso era pulito, non c’erano le tracce del trucco pesante, la matita scura che facevano risaltare il colore dei suoi occhi e il rossetto acceso sulle labbra. Non aveva la sua maschera, ma era senza dubbio lei, Mila. Anche più attraente in quella sua naturalezza.

Lei pagò, prese il suo sacchetto di carta e andò via, e il dottore commercialista Erio Signore la guardò mentre attraversava in fretta la strada in direzione del terminal dei bus. Ci fu l’istinto di un attimo di andarle dietro, ma invece rimase fermo al suo posto. Forse quella era la cura.

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Lecce, 5 aprile 2020

Gli avvenimenti qui raccontati sono di  fantasia. Ogni riferimento a fatti o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.______

Sara Foti Sciavaliere, 37 anni, giornalista/blogger, guida/accompagnatrice turistica, di origini pugliesi, è vissuta tra Calabria e Sicilia, ma ha deciso di mettere radici in Salento.  “Piacevolissimo, avvincente, intrigante“: è stato definito così dalla critica il suo romanzo d’esordio, appena uscito, da pochi giorni, per le Edizioni Il Raggio Verde, “La Sposa del Chiostro“.

 

Giuseppe Puppo, 62 anni, giornalista di cronaca, attualità e cultura, leccese, ha collaborato a quotidiani e settimanali, ed ha scritto diversi libri di inchieste e approfondimenti, e cinque opere teatrali. Da dieci anni è tornato nella sua città di origine, dove ha fondato il quotidiano leccecronaca.it che dirige.

 

Giuseppe Mauro, 23 anni, di Galatina, dopo la maturità classica ha intrapreso gli studi di “Design della Comunicazione” presso il Politecnico di Milano. Nel 2018 pubblica per iQdB Edizioni il suo primo ebook, Onda Type, che si posiziona al primo posto nella classifica Amazon, nella sezione “Design”. È appassionato di cinema e fumetti.

Category: Cultura

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