RIASCOLTANDO “La fame nelle scarpe”. A DALILA SPAGNOLO UN ANNO DOPO

| 11 Maggio 2025 | 0 Comments

di Roberto Molle ____________

Maledetto rock, una volta entrato nelle sue corde non riesci più a staccartelo di dosso. Ti circonda a tenaglia con le sue chitarre sferraglianti, ti stordisce con ritmi tribali che viaggiano sulle stesse frequenze del canto delle sirene di Ulisse, ti uccide mille volte facendoti rinascere dentro mondi mai immaginati (e dopo non sarà più lo stesso).

Benedetto rock, con le sue contraddizioni e i mille rivoli pulsanti in cui degrada da oltre settant’anni. Come fronda di vento si è contaminato di mille sfumature passando dentro calderoni di suono bollente: blues, folk, country, punk, psycho, techno, math e via dicendo.

Si può amare tanto un genere da restarne soggiogati? Può (quel genere) farsi stile di vita, acuire sensibilità verso certe storie e atrofizzarne nei confronti di altre?

Sembrerebbe proprio di sì, almeno basandomi su esperienze vissute in prima persona. A un certo punto vien quasi naturale un atteggiarsi snob nei confronti di tutto quello che non “suona” rock, e se da un lato ti puoi concentrare solo sulla musica che più ti piace, dall’altro, è un precludere lo sbloccarsi di nuove scoperte e altri livelli sonori non meno piacevoli e interessanti.

Per farla breve, mi è successo (di rado, ma sì) di sottovalutare la bellezza e il valore di un disco solo perché le sue sonorità viaggiavano su binari distanti dai canoni per me fondamentali da poterli ritenere degni di ascolti approfonditi e di una qualsiasi menzione. Per la verità, negli ultimi tempi mi è successo qualche volta: il troppo materiale da recensire, gli ascolti superficiali non supportati da un buon impatto iniziale, i pregiudizi formali nei confronti di musicisti che non “senti” a pelle; insomma mi è successo.

In particolare lo è stato con l’album di una cantautrice pubblicato nel 2023, ascoltato un paio di volte all’inizio e poi messo via. Non fosse che di tanto in tanto mi piace tornare sui miei passi e vedere se magari ho preso qualche cantonata, complice una giornata di maggio delicatamente uggiosa, un piglio umorale al limite dello spleen e un titolo in fondo profondamente poetico, eccomi qui a riascoltare, lasciando fuori cliché e aspettative, ponendomi con naturalezza, un disco sottovalutato e necessariamente da raccontare e consigliare.

Si chiama Dalila Spagnolo la cantautrice e “La fame nelle scarpe” il suo album; quella di Lecce è l’area dove tutto è iniziato e continua a svolgersi.

Qualche anno fa un amico organizzò un piccolo festival nel bosco Monticolomi, un luogo magico incastonato nella campagna di Ugento, popolato da carrubi, querce e peri selvatici; era il 2021 e tra i musicisti in cartellone ve n’erano alcuni a me già cari (Frank Bramato e Oh Petroleum, passati recentemente dalle pagine di leccecronaca.it) e qualcun altro che ancora non conoscevo.

Tra questi vi era una giovanissima donna che si chiamava Dalila Spagnolo.

La sera del suo concerto scambiai quattro chiacchere con lei prima che salisse sul palco, la ricordo timida ma determinata, sembrava sapesse il fatto suo ma sentirla cantare non m’impressionò più di tanto.

La seconda volta fu un anno dopo a Cutrofiano, lei presentava “Fragile”, suo ultimo disco del momento all’interno della rassegna “Donne d’incanto” e io ero lì a intervistarla.

Sentendola cantare scoprii con piacere che artisticamente la ragazza era cresciuta molto. La sua voce impastata a vibrazioni soul e ad atmosfere jazz si colorava di sfumature calde incantando il pubblico. Dalle risposte alle mie domande e dal modo in cui teneva la scena era palese che Dalila, forte di una passione profonda per la musica e l’amore per il canto, aveva le idee chiare su quello che sarebbe stato il suo futuro artistico: studio, impegno, dischi, concerti. A fine serata scappai via senza che ci potessimo salutare, in macchina i suoni destrutturati dei fratelli Pace (Blonde Redhead) e i vocalizzi ipnotici di Kazu Makino con le loro sferzate indie-rock ripulirono le mie sinapsi di ogni residuo della suadente voce di Dalila.

Ancora un anno, e un giorno il postino mi consegna un pacchetto. Dentro il nuovo disco di Dalila che ha un titolo evocativo: “La fame nelle scarpe”.

La copertina è eloquente, lei è seduta sul bordo di uno spazio sospeso e sotto, di spalle, una bambina, anch’essa seduta. Dalila sembra guardarla, forse si rivede piccola pensando a quanta strada ha percorso in uno spazio di tempo relativamente breve.

Infilo il cd nel lettore, indosso le cuffie e non scatta nessuna magia. Sul giradischi, dalla sera prima aspettava il vinile di “All That Was Eat Is West Of Me Now”, ultimo album di Glen Hansard. Spento il lettore, tolte le cuffie, ho dato potenza all’ampli e le fedeli Bose hanno fatto il resto. Glen mi aveva stregato ancora una volta e le canzoni di Dalila sono rimaste sospese nel limbo degli ascolti mainstream: carini si, interessanti anche, prescindibili… ci può stare.

Un anno ancora. Come si diceva: un mattino ventoso e grigio. La ricerca nello scrigno dei dischi non abbastanza apprezzati in prima istanza e l’estrazione quasi casuale de “La fame nelle scarpe” di Dalila Spagnolo.

Mi è sembrato un segno, dovevo ascoltare il disco e capire se quella ostinata ragazza stesse gridando delle verità che io non riuscivo a sentire.

La “sala d’ascolto”, questa volta più spartana, è l’abitacolo della mia macchina. La qualità audio non sarà quella del vecchio e fedele Technics ma ci sarà il vantaggio di avere scorci di campagna a perdere a rafforzarne le suggestioni.

Il disco è composto da dieci tracce che scivolano via piacevolmente, ricco di sfumature colte, arrangiamenti raffinati e una voce che incanta. Tutto un altro film, con trame che s’intrecciano a sonorità non proprio lontanissime da quelle da me apprezzate.

L’incanto pop e delicatamente jazzy di Alberi d’eterno, l’intro leggerodi L’erba voglio che si scioglie dentro afflati retrò, l’aria rarefatta di Faut pas doutè de moi che vibra di respiri trip-hop, incastonata da un delizioso refrain in francese e sostenuta dalle incursioni del polistrumentista del Burkina Faso Petit Solo.

Resto colpito da quanto Dalila sia cresciuta nella voce e nell’impostazione.

La sua scrittura è matura, gli arrangiamenti mai ridondanti, i rimandi sono tanti e tutti evocativi. In Tracciare le distanze se chiudo gli occhi posso immaginare un’ispirata Cristina Donà che fissa un’ombra nell’oscurità e in Quel santo giorno tra le nebbie di una suite orchestrale avanza un’altera e fascinosa Tosca col vento a scompigliarle i capelli.

Una tromba sullo sfondo e ritmi sotterranei accompagnano i versi parlati di Interludio (Portami via) dentro un incedere fiero e determinato. Forse è lirica e struggente ballata, fatta di atmosfere attinte a episodi e mondi cristallizzati tra gli ultimi anni di un secolo che non si riesce a lasciare andar via.

Le atmosfere da musical e il canto in inglese popolano il pattern di Superpower, quasi un divertissement dove la voce s’impenna dentro maglie che evocano altre voci di straordinaria grandezza: Barbra Streisand, Linda Ronstadt, Carol King.

Nella conclusiva Crisci figghia mia giocata su un testo dialettale e atmosfere rarefatte, Dalila duetta con la splendida voce di Rachele Andrioli dentro un lirico equilibrio che incanta per pathos e bellezza.

Il disco è finito e sono felice di essermi voltato indietro e di avere un’altra musicista di cui essere fan; una cantante e autrice di talento e di grande personalità.

Nel frattempo Dalila se n’è andata in giro per il mondo, continua a tenere concerti e scrivere nuove canzoni. Da poco ha pubblicato Anche il fiume, un nuovo bellissimo brano che prelude a un nuovo album.

Da parte mia, allo stato, posso solo dire: A star is born… finally.

Hanno realizzato “La FAME NELLE SCARPE

testi, musiche e canto: Dalila Spagnolo

batteria: Mylious Johnson e Antonio De Donno

strumenti africani, cori, balafon e kamalè ngoi: Petit Solo Diabaté

contrabbasso e basso: Davide Codazzo

violoncello: Antonio Alemanno

violino. Francesco Del Prete

chitarre: Nick Gambino e Giuseppe Pica

voce solista: Rachele Andrioli e Petit Solo

arrangiamenti e mixaggio: Luigi Russo

masterizzazione Carlo De Nuzzo

Category: Cultura

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