Bob Dylan, oggi, conquista il Premio Nobel per letteratura. Daio Fo, oggi, abbraccia l’infinito: un passaggio di consegne tra fuoriclasse rari di cotanto mondo imbastardito.
Milano, la metropoli nevrotica in cui il maestro Fo è diventato uomo, attore, drammaturgo, regista e scrittore di inesplicabile fattura. Milano, il centro gravitazionale cosmopolita che lo ha visto battere le ciglia per l’ultimo volta. Novanta primavere di stoica attività super-culturale: un premio Nobel nel 1997 strappato ai fighi romanzieri con charme socratico: era il magnifico giullare del ventesimo secolo che scherniva gli unti dal potere per restituire dignità agli ultimi.
Il manifesto programmatico della sua carriera è senza discussioni critiche o estetiche Mistero Buffo. In tale rappresentazione, regalata al magmatico pubblico nel 1969, Fo si muoveva sul palcoscenico (che odorava di corte medievale) sciorinando un linguaggio grammelot, fiero leitmotiv del teatro d’improvvisazione giullaresca, che è elevato da suoni ritmati (magistralmente intonati) per sviluppare uno spettacolo parodistico. In Mistero Buffo – e in innumerevoli altre opere – , il maestro lombardo sperimentava una specie di pastiche innovativo, dove i testi antichi venivano rivitalizzati ed elevati con l’inserimento della creme dei dialetti italici.
Nel 1954 sposò Franca Rame, dalla quale ebbe un figlio nella vita reale, Jacopo, e un altro figlio sul proscenio: un duo di oltre sessant’anni che partiva dal fortissimo impegno civile e artistico, talmente vorticoso da sfociare al crepuscolo del 1958 ne La Compagnia Dario Fo-Franca Rame.
Lui era il regista e il drammaturgo del sodalizio, lei la prima attrice nonché l’amministratrice.
Certo nel 1968 il fervore ideologico li portò a fondare la compagnia Nuova Scena, per poi lasciarla e creare la storica La Comune, amatissima del popolo per la proposta di spettacoli satirici dalla critica acutissima (in primis nei confronti della politica di matrice democristiana). Una delle rappresentazioni più suffragate fu Morte accidentale di un anarchico, opera in cui non era necessario leccare il deretano degli “illustri” per strappare scroscianti applausi, entrando come un rompicapo nell’immaginario culturale tricolore. Prendete nota, cari lettori.
“C’è una regola antica nel teatro, quando hai concluso non c’è bisogno che tu dica altra parola. Saluta e pensa che quella gente, se tu l’hai accontentata nei sentimenti e nel pensiero ti sarà riconoscente…”.
In questo pensiero così intenso e lucente, gridato come ultimo saluto alla moglie Franca, il maestro Fo, oltre a regalare al volgo l’ennesima lectio magistralis, scriveva in un certo senso il proprio epitaffio.
Dopo questa sua pesantissima assenza vitale potremo comunque abbeverarci agli ultimi elisir Foniani, da rintracciare nelle recentissime apparizioni pubbliche (come quella da cavallo di razza che abbiamo postato alla sommità dell’articolo), oppure da ricercare pazientemente tra le righe del freschissimo suo testo: Darwin.
Dario Fo è la Maschera di cristallo della “vera” Italie, quella che ama, pensa col cervello e lavora con ogni fibra del proprio cuore. Fo ha saputo raccontarci, sollevarci e talvolta riportarci dalle nuvole sulla terra come nessun altro prima.
Adieu Maestro,
il tuo sorrisone dolcemente melodrammatico avvolge il cielo di un’Italia spesso irriconoscente verso i suoi figli più luminosi, ma che non li dimenticherebbe per nessuna catastrofe al mondo.
Ci sono alcune regole non scritte in Italia, una di queste è la santificazione post mortem. Non importa chi tu sia stato in vita, un cantante, un ladro, un assassino, un attore, un criminale, un missionario..quando muori diventi santo. Ed ovviamente non poteva esimersi dal circo mediatico nemmeno Dario Fo che oggi ci ha lasciati.
Tutta l’armata brancaleone della sinistra fa a gara per incensare il giullare di corte dimenticando forse che da giovane lui ai partigiani dava la caccia. E’ sì, perché Fo rientra tra i più famosi voltagabbana della storia del nostro Paese. Durante la seconda guerra mondiale si arruolò volontario nella Repubblica Sociale Italiana, tra i paracadutisti del Battaglione Azzurro di Tradate (Va). Dario Fo negò sempre la sua partecipazione querelando per diffamazione chiunque dichiarasse il contrario, come Angelo Fornara del settimanale “Il Nord”. Ma accadde qualcosa che forse non aveva previsto. Le prove della sua militanza fascista vennero fuori durante il processo, grazie soprattutto al giornalista Luciano Garibaldi che pubblicò sul settimanale “Gente” fotografie di Fo in divisa ed un disegno dello stesso Premio Nobel dove appaiono suoi camerati con le anime dei partigiani uccisi che escono dalle canne dei fucili. Tutti i testimoni smentirono Fo, dall’ex Sergente Maggiore istruttore paracadutista Carlo Maria Milani all’ex Capitano paracadutista istruttore De Santis, passando per l’ex capo partigiano Giacinto Lazzarini. Il Tribunale di Varese, il 7 marzo 1980, sentenzia che “è perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e rastrellatore di Partigiani”. Sentenza definitiva perché Fo non la impugnò mai.Poi Fo si calò così tanto nella parte dell’antifascista da entrare nella mobilitazione del “Soccorso Rosso Militante” di cui facevano parte lui e la moglie Franca Rame (che in una lettera del 28 aprile 1973 scriveva ad Achille Lollo, poi condannato in secondo grado a 18 anni di carcere: “Ti ho inserito nel Soccorso rosso militante. Riceverai denaro dai compagni, e lettere, così ti sentirai meno solo”).
Assecondò la tesi del figlio allora 20enne Jacopo che definì complottistico il rogo di Primavalle, una sceneggiata, un complotto di Stato. Ricordiamo che la notte del 15 aprile 1973 diedero fuoco all’appartamento romano di Mario Mattei, segretario della sezione “Giarabub” di Primavalle del Msi, causando la morte dei figli Virgilio e Stefano rispettivamente di 22 e 10 anni.Jacopo disegnò una vignetta che definire di cattivo gusto non rende l’idea, nell’opuscolo “Se ti muovi ti Stato.”
Né lui né i genitori hanno mai rinnegato l’appoggio agli esecutori materiali della strage, tantomeno chiesto scusa per la vignetta satirica, neppure dopo che fu accertata la responsabilità di “Potere Operaio” nel rogo di Primavalle.
Nessuno vuole negare le qualità letterarie ed artistiche di Dario Fo (in realtà anche qui ci sarebbe molto da dire, ma l’arte è soggettiva), nessuno vuole parlar male di qualcuno che non c’è più. Ma per una volta proviamo ad essere corretti e ricordare ciò che di buono è stato fatto in vita, ma anche ciò che non può essere annoverato tra le opere di bene.
La morte non cancella tutto.
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Prima Fascista, poi Comunista, poi 5 Stellista, sempre protagonista, ma non sempre antagonista.
Ci sono alcune regole non scritte in Italia, una di queste è la santificazione post mortem. Non importa chi tu sia stato in vita, un cantante, un ladro, un assassino, un attore, un criminale, un missionario..quando muori diventi santo. Ed ovviamente non poteva esimersi dal circo mediatico nemmeno Dario Fo che oggi ci ha lasciati.
Tutta l’armata brancaleone della sinistra fa a gara per incensare il giullare di corte dimenticando forse che da giovane lui ai partigiani dava la caccia. E’ sì, perché Fo rientra tra i più famosi voltagabbana della storia del nostro Paese. Durante la seconda guerra mondiale si arruolò volontario nella Repubblica Sociale Italiana, tra i paracadutisti del Battaglione Azzurro di Tradate (Va). Dario Fo negò sempre la sua partecipazione querelando per diffamazione chiunque dichiarasse il contrario, come Angelo Fornara del settimanale “Il Nord”. Ma accadde qualcosa che forse non aveva previsto. Le prove della sua militanza fascista vennero fuori durante il processo, grazie soprattutto al giornalista Luciano Garibaldi che pubblicò sul settimanale “Gente” fotografie di Fo in divisa ed un disegno dello stesso Premio Nobel dove appaiono suoi camerati con le anime dei partigiani uccisi che escono dalle canne dei fucili. Tutti i testimoni smentirono Fo, dall’ex Sergente Maggiore istruttore paracadutista Carlo Maria Milani all’ex Capitano paracadutista istruttore De Santis, passando per l’ex capo partigiano Giacinto Lazzarini. Il Tribunale di Varese, il 7 marzo 1980, sentenzia che “è perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e rastrellatore di Partigiani”. Sentenza definitiva perché Fo non la impugnò mai.Poi Fo si calò così tanto nella parte dell’antifascista da entrare nella mobilitazione del “Soccorso Rosso Militante” di cui facevano parte lui e la moglie Franca Rame (che in una lettera del 28 aprile 1973 scriveva ad Achille Lollo, poi condannato in secondo grado a 18 anni di carcere: “Ti ho inserito nel Soccorso rosso militante. Riceverai denaro dai compagni, e lettere, così ti sentirai meno solo”).
Assecondò la tesi del figlio allora 20enne Jacopo che definì complottistico il rogo di Primavalle, una sceneggiata, un complotto di Stato. Ricordiamo che la notte del 15 aprile 1973 diedero fuoco all’appartamento romano di Mario Mattei, segretario della sezione “Giarabub” di Primavalle del Msi, causando la morte dei figli Virgilio e Stefano rispettivamente di 22 e 10 anni.Jacopo disegnò una vignetta che definire di cattivo gusto non rende l’idea, nell’opuscolo “Se ti muovi ti Stato.”
Né lui né i genitori hanno mai rinnegato l’appoggio agli esecutori materiali della strage, tantomeno chiesto scusa per la vignetta satirica, neppure dopo che fu accertata la responsabilità di “Potere Operaio” nel rogo di Primavalle.
Nessuno vuole negare le qualità letterarie ed artistiche di Dario Fo (in realtà anche qui ci sarebbe molto da dire, ma l’arte è soggettiva), nessuno vuole parlar male di qualcuno che non c’è più. Ma per una volta proviamo ad essere corretti e ricordare ciò che di buono è stato fatto in vita, ma anche ciò che non può essere annoverato tra le opere di bene.
La morte non cancella tutto.