IL CASO / IVAN CIULLO, DIECI ANNI DI MISTERO E UNA VERITÀ ANCORA NEGATA: IL FASCICOLO ARCHIVIATO PER LA QUARTA VOLTA. LA FAMIGLIA NON SI ARRENDE E RICORRE ALLA CORTE DI STRASBURGO: “Non si è suicidato, è stato ucciso”

di Flora Fina ___________
Dieci anni. Quattro inchieste. Due indagati. Una verità che continua a sfuggire. E un dolore che, anziché affievolirsi con il tempo, diventa più affilato, più vivo. Il caso di Ivan Ciullo, il dj salentino di 34 anni trovato impiccato a un albero di ulivo nelle campagne di Acquarica del Capo il 22 giugno 2015, resta avvolto in una nebbia densa, fatta di lacune investigative, domande senza risposta e interrogativi rimasti sospesi nel vuoto.
Negli scorsi giorni, la giudice per le indagini preliminari del tribunale di Lecce, Tea Verderosa, ha accolto la richiesta della Procura e ha disposto la quarta archiviazione del fascicolo. Ma la famiglia di Ivan non si arrende. Con la dignità ferita e lo sguardo rivolto oltre i confini nazionali, ha annunciato il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, decisa a ottenere, dopo un decennio di battaglie legali, quella giustizia che sente essere stata finora negata.
Ivan aveva una carriera promettente nel mondo musicale, e un alias artistico – DJ Navi – che riecheggiava nei locali, nei festival, nelle notti vibranti della provincia. Ma soprattutto aveva una vita piena, fatta di passioni, relazioni, speranze. E nessun segnale, a detta dei suoi cari, lasciava presagire una scelta estrema. Per questo, quella mattina di giugno, quando il suo corpo venne ritrovato senza vita, appeso con un cavo da microfono a un albero in una contrada isolata, qualcosa non tornò. Non tornò nell’anima dei genitori, che da subito esclusero il suicidio. E non tornò nei dettagli della scena, che più di qualcuno, col tempo, ha definito “incompatibili” con l’ipotesi di un gesto volontario.
Fin dall’inizio, infatti, le incongruenze apparvero numerose e vistose. L’osso ioide, che solitamente si frattura nei casi di impiccagione, risultava integro. Nessuna impronta digitale venne rilevata sul cavo. Nessuna lettera di addio. Un biglietto manoscritto, trovato vicino al corpo, mostrava una grafia che – secondo periti della difesa – non corrispondeva a quella di Ivan. E ancora: la posizione del cadavere, la mancanza di segni di trascinamento sul terreno, la presenza di un nodo professionale su un albero troppo basso per giustificare una caduta letale. Dettagli che, messi insieme, generano una sola domanda: e se non fosse stato un suicidio?
Ma quella domanda, per anni, è rimasta inascoltata.
L’inchiesta si è chiusa una prima volta, poi si è riaperta, poi è stata archiviata di nuovo. Ogni volta, i genitori di Ivan – figure di silenziosa tenacia, mai spettacolari, mai vendicative – hanno continuato a chiedere verità. Con discrezione, ma con fermezza. Accompagnati da un collegio difensivo agguerrito, composto dagli avvocati Paolo Maci, Maria Chiara Landolfo e Gianluca Tarantino, hanno sollevato obiezioni su ogni passaggio ritenuto lacunoso: sopralluoghi sommari, rilievi incompleti, omissioni investigative. E in quel silenzio ufficiale, hanno iniziato a parlare le perizie di parte. Quelle che, una dopo l’altra, hanno raccontato un’altra storia.
Nel 2021, una nuova svolta: il giudice Sergio Tosi ha respinto la richiesta di archiviazione avanzata dalla pm Maria Vallefuoco. Nella sua ordinanza, ha riconosciuto “numerose anomalie investigative” e ha disposto nuovi accertamenti. Era la prima volta che l’opposizione dei familiari veniva accolta con tale chiarezza. Quello è stato un passaggio chiave, perché ha acceso nuovamente i riflettori su un caso che rischiava di finire sepolto sotto la polvere dell’indifferenza.
Nel 2023, il passaggio più delicato: la riqualificazione del reato da istigazione al suicidio a omicidio. Il nuovo pubblico ministero, Donatina Buffelli, ha iscritto due persone nel registro degli indagati. Due uomini del mondo affettivo e professionale di Ivan: il primo, legato a lui da una relazione difficile, forse tormentata; il secondo, un collaboratore musicale. Una pista complessa, da seguire con rispetto e senza insinuazioni, che però – secondo l’accusa – meritava di essere esplorata. La famiglia, per parte sua, ha sempre chiesto che ogni dinamica venisse ricostruita con delicatezza, senza mai scivolare in letture morbose o offensive.
Nel frattempo, è stata disposta una simulazione scientifica: un manichino, sospeso nella medesima posizione in cui fu ritrovato Ivan, ha dimostrato che la scena risultava incompatibile con una classica impiccagione. I dubbi iniziali, così, sembravano farsi certezze. E per la prima volta, si intravedeva la possibilità di un processo.
Ma quella possibilità si è dissolta nel nulla. Con l’archiviazione disposta in questo mese di luglio 2025, la quarta in dieci anni, tutto sembra tornare al punto di partenza. Eppure, il punto di partenza non è mai stato neutro. È stato, fin dal primo giorno, un luogo pieno di sospetti non ascoltati, di dettagli ignorati, di dolore sommerso. Ed è da lì che i familiari di Ivan intendono ripartire.
Oggi annunciano il ricorso a Strasburgo. Perché – come ripetono da anni – “Ivan non si sarebbe mai tolto la vita. Amava la musica, il suo cane, i suoi amici. Non avrebbe mai lasciato tutto così, senza un segno, senza un grido.” Le loro parole non sono disperate, ma lucide. Il loro lutto non cerca colpevoli a ogni costo, ma una verità che sia degna di quel figlio, così sensibile, così creativo, così pieno di futuro.
Il caso di Ivan Ciullo, così, non è solo una vicenda giudiziaria. È un racconto collettivo di ostinazione e silenzio, di giustizia e opacità, di amore e ferite. È una storia che interroga le istituzioni e, al tempo stesso, la nostra capacità di ascolto, la nostra empatia verso chi resta. Ivan oggi non può più difendersi, né raccontare. Ma la sua storia continua a vivere nella voce incrollabile di chi lo ha amato, e che oggi – dieci anni dopo – non ha ancora smesso di pretendere verità.
Category: Cronaca