UN PROCESSO MEDIATICO / SALTA UN PRINCIPIO COSTITUZIONALE FONDAMENTALE / LE TURPI SPETTACOLARIZZAZIONI DELLE TV / LE FRASI FAMOSE DI UNA VICENDA CHE RIGUARDA NON SOLTANTO MAGISTRATI E GIORNALISTI, BENSI’ TUTTI NOI. ECCO PERCHE’

| 12 Dicembre 2015 | 0 Comments

di Giuseppe Puppo______

Dico spesso, quando serve: “Siamo poveri giornalisti, non siamo mica magistrati”. Giusto. E a volte, quando è necessario, in altri contesti, ripeto anche io come tutti: “le sentenze si rispettano”.

Si rispettano, sì, certo, ma si possono commentare. Con ciò sempre affermando che dobbiamo e vogliamo avere il massimo rispetto per la magistratura, un principio cui mi sono sempre attenuto, anche quando nel mio mestiere mi sono imbattuto in cose francamente allucinanti.

Questa storia di otto anni, che finisce solamente dal punto di vista processuale, otto lunghissimi anni, comunque intanto decisamente troppi per una qualunque conclusione, finisce nella cosa più allucinante di tutte.

Ci riguarda tutti. Siamo servi delle leggi, se vogliamo essere liberi.

La legge dice che un imputato va condannato solamente se ci sono prove della sua colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio. Alberto Stasi è stato condannato poche ore dopo che lo stesso procuratore generale della cassazione aveva espresso in maniera chiara e netta, senza possibilità di fraintendimenti, ragionevoli dubbi. Non uno qualsiasi, il capo della massima istituzione, sconfessato dalla corte stessa. Salta quindi da questo momento in avanti uno dei principi basilari della nostra Costituzione.

Perché la legge è chiara, e ci viene dalla nostra più antica, nel senso di nobile, altissima tradizione giuridica: in dubio pro reo.

E insomma: colpevole o innocente che sia nella realtà dei fatti, tu Istituzioni o raccogli – in un tempo decente e non biblico – le prove necessarie a inchiodare l’ imputato alla sua colpevolezza “al di là di ogni ragionevole dubbio” e per questo lo condanni; oppure non lo fai, e allora lo assolvi, e poi lo lasci in pace, se pace potrà avere nella sua coscienza.

Non ci metti poi otto anni, a finire una storia processuale, per di più in maniera allucinante.

Sono queste le cose che la gente non capisce e che generano sfiducia nelle Istituzioni.

Non capisce, il cittadino medio – mediocre come me povero giornalista, per fare un altro esempio, l’ ultimo, di pochissimi giorni fa, che dopo sei mesi, come al gioco dell’ oca, un processo fondamentale contro inquinatori e politici collusi, debba ritornare al punto di partenza, soltanto perché i nomi degli avvocati difensori non erano stati ricopiati da una carta all’ altra.

Ma vi pare possibile? Eppure succede, e continua a succedere.

***

C’è ancora un altro importantissimo aspetto che viene fuori da questa vicenda in maniera eclatante e che riguarda tutti noi abitanti del nostro villaggio globale in cui esercitiamo la nostra identità di contemporanei.

Quest’ ultimo, purtroppo, non riguarda i magistrati, ma i miei colleghi.

E’ strano come a volte ritornino in mente parole che sembravano dimenticate. Mi rivedo otto anni fa a Vigevano, alla affollatissima conferenza – stampa del magistrato inquirente pochi giorni dopo il delitto.  Alfonso Lauro, così si chiamava, rimproverò i più impazienti di noi, con parole che andrebbero fatte studiare a tutti quelli che fanno, o vorranno fare questo mestiere : “Non dovete eccitare la morbosità della gente, le indagini sono complicate e scientifiche, mica si fanno in televisione”. Con quel a tratti marcato- specie nelle doppie “sc” e “gl” – tipico e simpaticamente caratteristico dei napoletani, fedele anche al suo cognome, lo disse poi chiaramente: “Non è che siamo in tv, non siamo a Csi, che in mezzora si sa tutto”.

Fu tragicamente lungimirante. Per otto anni il caso dell’ assassinio di Chiara Poggi è stato “pompato” a dismisura da quotidiani e settimanali della carta stampata e del web, ma soprattutto dalle reti televisive, pubbliche e private, in programmi di parole e immagini in libertà che diventano spettacolo e spettacolo fan tutto diventare, anche il dolore e la tragedia.

Hanno dilatato il caso a dismisura, l’hanno spettacolarizzato anche per eccesso, l’hanno sfracellato fino all’ultimo brandello possibile e immaginabile, ne han fatto scempio, ne han fatto strame.

Hanno celebrato i processi, pur negando di volerlo fare, seguendo il logoro copione di alcuni compari di chiacchierata colpevolisti e gli altri innocentisti, per cui ognuno dice la sua, su quel poco che sa, o finge di sapere e alla fine non solo la verità cercata continua a latitare, ma si allontana: poi, se ne sa sempre meno di prima, non si conclude mai nulla, alla fine resta sempre soltanto una confusione maggiore. Oltre che, certo, l’audience, cui si è sacrificato ogni pudore, da immolare alla pubblicità, al successo, al denaro.

E come è possibile, dopo tutto questo ambaradan, non arrivare a un colpevole, in qualunque modo non importa?

Dopo otto anni, ad Alfonso Lauro ha fatto eco chiarissima poche ore fa il già citato procuratore generale Oscar Cedrangolo, denunciando “la sofferenza di quei processi televisivi che inquinano la capacità di giudizio degli spettatori, tra i quali, forse nessuno ci pensa, rientrano anche i giudici, togati e popolari, di queste vicende”. 

Una constatazione condivisa finanche dall’ avvocato Francesco Compagna della famiglia di Chiara Poggi: “E’ vero, come dice il procuratore, che scontiamo il peso di un processo mediatico. L’errore in cui si rischia di incorrere è farci un’idea esaminando gli atti maniera pregiudiziale“.

Ecco qua.

‘Stasera molti giornalisti, e tanti nani, saltimbanchi e ballerine dovrebbero fare un serio esame di coscienza. Ma invece già si fregano le mani, e andranno avanti, come prima, più di prima.

 

 

Category: Costume e società

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