ALESSANDRA MERICO, ‘POETEATRESSA’ DEL ‘VENDICHISMO’

| 16 Agosto 2017 | 0 Comments

di Davide Rondoni______(per gentile concessione dell’ autore e dell’ editore, pubblichiamo la prefazione di Davide Rondoni alla raccolta di poesie di Alessandra Merico – nella foto in basso-  ‘Contro Venere’, edizioni I Quaderni del Veltro)______

La poeteatressa e la corrente del vendichismo – Se scrivo questa piccola prefazione alla raccolta di scritti – intensi e feroci – di Alessandra Merico è perché credo che il libro meriti d’essere letto e perché esista un fenomeno su cui occorre riflettere.

I versi, gli scritti, il grondare di parole della talentuosa Merico, infatti, si ascrivono a mio avviso a una corrente non secondaria della poesia attuale. Non una corrente definita da elementi stilistici, e nemmeno da ascendenze letterarie comuni. Io la chiamo “vendichismo contemporaneo“.

Lo dice lei, lo dichiara nella nota iniziale che – anch’essa guerresca – non intende lasciare scampo al lettore. Ovvero poesie o qualcosa del genere buttato giù e a volte rilavorato con cura e acribia che paiono scritte quasi per “vendicarsi” di qualcuno o qualcosa. Ho scorto il dilagare del fenomeno qualche anno fa tra giovani poetesse in Sicilia, non a caso un’altra terra di quel Sud da cui in parte la Merico stessa proviene.

Un ribollire di poesie o pseudotali contro padri difettosi, fidanzati fedifraghi, mariti scappati, amanti deludenti… o contro storie finite male. La cosa potrebbe fare sorridere e ovviamente i critici seri, quelli che suppongono di determinare le sorti della poesia, ridacchieranno della mia idea. Ma inviterei, chi vuole, a non banalizzare. Non si tratta solo di un emergere di contrasti – non più genere letterario di gentile tenzone amorosa, ma vere e proprie guerre – che segnano diffusamente la società di oggi (forse in modo più evidente di quella di ieri). Insomma, non è il “vendichiamo” solamente una spia di mutamenti sociali. Bensì qualcosa che riguarda propriamente la natura stessa del gesto e dell’intenzione poetica.

La storia della letteratura ci offre esempi numerosi di opere o di singole poesie scritte per vendetta o risentimento, per sgarbo o per colpire qualcuno. Da sonetti serissimi ed enigmatici, a sbracate e colorite canzoni, da ritratti celati in personaggi teatrali all’impiego di nomi allusivi in dediche e citazioni…

La vendetta, specie se servita fredda, come si sa, è un elemento umano che come tutti gli altri – dagli alti ai bassi – è entrato nel farsi della poesia. Anche il Sommo, nella sua Commedia, com’è noto, si toglie qualche sassolino dai calzari, e lo stesso fanno Shakespeare e anche altri giganti. Già questi nomi fugano il dubbio che il “vendichismo” passato e contemporaneo sia appannaggio solo di donne ferite alla riscossa. Il fenomeno è vasto, complesso, plurale come si usa dire oggi nei convegni di mezze intelligenze.

E dunque cosa ci dice sulla natura della vocazione della poesia oggi il “vendichismo” barocco e spietato di Alessandra Merico? Due cose importanti.

La prima è che la poesia continua nel suo doppio viaggio epico e lirico. E che per quanto il dominio dell’epica sembra appartenere al passato, nonostante le superbe prove di poeti contemporanei nella costruzione di grandi narrazioni in versi attuali (da Walcot a Murray, da Bertolucci a Bigongiari, fino a più recenti come Mussapi e altri) avviene che pur nel dominio della lirica – parola che sembra coincidere per i più con la parola poesia – le acque si mischino, si confondano, si nutrano al vicenda. Basti vedere come si conclude questo libro. Ma vale soprattutto notare come il “vendichismo” sottolinei la natura di “trauma” della ispirazione.

Ovvero occorre qualcosa che è come una ferita, un torto, uno scandalo perché sorga il dire poetico. E questo è importante, è vero, è comune alla grande poesia. Fu lo scandalo e il trauma della perdita di Beatrice a muovere il giovane Alighieri al gran poema. E a non essere più solo un notevole letterato ma il grandioso poeta. Senza tale natura di trauma che può avvenire, si badi, anche sotto il segno della gioia, l’ispirazione spesso la si vede ridursi a pensierino, intenzioncina, piccola trovata che non regge lo spazio nemmeno del primo verso. E di ispirazioni smunte se ne vedono pure troppe. Poesie mosse da vanità ovvero vuoto che produce solo altro vuoto. Ma tale trauma – ed è la seconda cosa che il “vendichismo” apporta come contributo – muove una poesia che avviene tutta nello spazio dell’io il quale diviene però spazio epico.

L’io del “vendichismo” e per così dire chiamato a uscire dal puro spazio del lirismo dove pure conosceva combattimenti interiori, dissidi snervanti, giochi di specchi e illusionismi di ogni natura. L’io vendichista deve entrare in uno spazio epico dove la polarizzazione io-tu produce un interna ridisposizione del campo di forze, in un teatro tutto spoglio se non delle metafore della guerra e dei segni del corpo dopo la battaglia. Un teatro povero e però ricco. E dove i colpi della vendetta di certo non colpiscono solo in una direzione. Come se l’altra faccia della medaglia del vendichista sia una necessità di espiazione.

L’unico vincitore infatti qui appare la voce poetante – che non coincide del tutto con uno dei due personaggi reali in gioco, e che costituisce come sempre nell’arte una terzietà. Intendo dire che nei vendichisti migliori nemmeno chi si vendica ha scampo finale se non diventando poesia, accedendo a un livello altro di dicibilita dell’esperienza – altro persino dalla psicanalisi e tutti gli altri generi del discorso. Ci si poteva accontentare di una serie di sedute dallo psicoterapeuta e invece deve entrare in campo un’altra parola, non più solo medicamento ma nuovo avvenimento (il poiein, il fare…) Basta leggere qui testi forti e notevoli come “Scese a terra l’inferno” e altri che lo precedono. Del resto, l’autrice è donna di teatro e il testo del libro è costruito quasi con tempi e silenzi teatrali, a volte con qualche prezzo pagato dalla scrittura medesima, ma con una coerenza e una forza notevoli.

Esponente di punta, dunque, di tale nuova e antica corrente detta del “vendichismo”, la Merico rappresenta subito una sfida agli stessi vendichisti ovunque sparsi: occorre costruire un teatro della vendetta, non basta l’invettiva, non basta l’episodio pungente o la battuta salace. O meglio occorre un teatro della guerra, poiché qui non c’è solo propriamente vendetta ma guerra totale e la perlustrazione desolata e stremata del campo dopo la guerra.

E tale costruzione non è un affare semplice, occorre un talento edile, una zampata cinematica, una geografia metaforica, una pazienza costruttiva, anche a scapito – come a volte qui appare- del lavoro di cesello sul singolo componimento. Ma la direzione è tracciata. Il dopo-amore in una luce livida di vendetta può essere recitato anche da questa poetessa come altri che l’hanno preceduta. V

i dice niente la Sexton? O la forse più brava ma molto meno conosciuta Hilda Hirsct delle ultime prove? Non sappiamo quanto la Merico proseguirà in questa direzione dopo averci narrato in versi accesi e scabri, con invenzioni notevoli di figure, larghezza di lessico e sorpresa di metafore la morte di Venere – dea dell’amore e della generazione, il cui tempio dominava i fori romani voluti da Cesare.

Può darsi che tale messa in scena sia esaurita e che altri lidi attendano il viaggio inquieto di questa “poeteatressa” che come altre sue meravigliose e invasate colleghe oscilla facendo inevitabile (a volte non del tutto insalubre) confusione tra scena e scrittura. Certo è che il libro che tenete tra le mani ha dentro una certa quantità di esplosivo, e va maneggiato con cura. Quella cura che se manca uccide Venere. Vediamo di non essere altri killer. ______

Category: Cultura, Libri

About the Author ()

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Connect with Facebook

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.