LECCESITA’ N.1: MA L’ALVINO SI CHIAMA ANCORA ALVINO?

| 11 Settembre 2017 | 4 Comments

di Raffaele Polo_______ Sto seduto in Piazza Sant’Oronzo, proprio sotto la colonna. Ci sono dei turisti che guardano, come me, il pigro avvicendarsi dei passanti che indugiano a osservare il pavimento con la Lupa, oppure passano senza notare nulla, diretti verso l’Alvino e i pasticciotti…. Ma si chiama ancora Alvino? E ci sono ancora, i pasticciotti?

La memoria si perde dietro questi piacevoli ricordi, alzo lo sguardo verso la finestra dove don Ernesto Alvino redigeva i suoi articoli per ‘Voce del Sud’…. Nostalgia? Non so, mi hanno insegnato che un intellettuale non deve avere mai nostalgia di nulla, proteso a comprendere i segnali del tempo presente…

Poi, d’improvviso, una voce riempie la Piazza: è mezzogiorno, e Tito Schipa, oggi, ci canta la sua accorata Ave Maria. Una tradizione bellissima, questa di far coincidere la ‘menzatia’ con la voce del nostro tenore… Ma noto uno sguardo di sorpresa nei turisti, che non si spiegano, non sanno, non capiscono. E mi viene da pensare che hanno ragione, tutto sommato. Perché non far annunciare brevemente l’intervento canoro da una presentazione che spieghi che quella è la voce di Tito Schipa, registrata da una incisione del 1951? (diciamo così per dire, ma almeno uno capisce cosa sta ascoltando). Lo fanno anche alla RAI, con la musica classica, in apertura e chiusura di ogni esecuzione. Basta poco, pochissimo, in fin dei conti. Ma ci pare necessario, questo piccolo aggiustamento. Non fosse altro che per far sapere, a chi non è salentino, cosa sta ascoltando. Oppure….

Oppure deve essere proprio così, come tutta la nostra storia di leccesi, di figli del Salento. Che, quasi vergognosi, nascondiamo le cose belle che abbiamo e che facciamo, in una sorta di incredibile autolesionismo culturale che maschera timidezza e pudore. Mah! Perduto in queste considerazioni, sento arrivare fino a me l’inconfondibile odore dei pasticciotti, come succedeva un tempo. Ho gli occhi chiusi e non oso aprirli, per non dovermi ricredere, per non dover interrompere il bellissimo sogno.

Category: Costume e società, Cultura

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Comments (4)

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  1. direttore ha detto:

    Nostalgia, sì: nostalghia alla Tarkowskij, o nostalgia nostalgia canaglia, per citare un altro intellettuale…
    Io lo so.
    Raffaele Polo era uno degli ‘Alvino boys’ che in quella Lecce trepida e sapida degli anni Settanta imparavano da don Ernesto il mestiere, e la Vita.
    Personalmente, non posso sapere, se non delle foto ingiallite con dedica, dei rapporti pregressi con i Marinetti e con i Prezzolini, né di quelli con i tanti futuri giornalisti dalla metà degli anni Cinquanta, alla metà degli anni Settanta.
    Ma posso testimoniare di una generazione, 1’ultima che Ernesto Alvino tenne a battesimo: di quando sbuffava, perché erano sempre troppo lunghi, prima di sottoporli a una drastica cura dimagrante, di fronte agli articoli che gli mandava per posta da un vicino paese della Puglia Marcello Veneziani; di quando gelava con una delle sue battute fulminanti le esuberanze dottrinarie e ideologiche di Alfredo Mantovano; di quando sorrideva, chissà se per celia, o per compiacimento, sugli scritti corsari di Mario Bozzi Sentieri.
    E quando affidava all’ onore della prestigiosa terza pagina la rubrica che Raffaele Polo firmava ogni settimana con Giancipoli.
    Gite nell’ irreale, si chiamava.
    Oggi, quaranta anni dopo, Raffaele Polo ne ha fatta un’ altra, e ce l’ ha appena raccontata.
    Come Swann di Marcel Proust, invece delle madeleine ha cercato i mitici pasticiotti di Pippi Alvino, fratello di don Ernesto (l’ uno deliziava il palato, l’ altro la mente dei Leccesi), e non li ha trovati.

    La redazione del giornale, con il balcone sopra il bar, non c’è più, se non nella superstite memoria di qualcuno.

    Il bar c’è sempre, ma solo nel nome. E’ ridotto ad un luogo senza anima e senza identità, che potrebbe stare allo stesso modo in una qualunque città del mondo, frequentato solamente dai turisti di passaggio, con i rustici freddi e oleosi, i pasticciotti che non profumano più, e poi inutilmente, esageratamente caro.

  2. Vincenzo Antonio Conte - tramite Facebook ha detto:

    Complimenti all’ autore.

  3. Sonia Letizia ha detto:

    “L’Alvino” era tante cose era Cultura, era Politica, era goliardia, ed era scuola di coraggio e di provocazione. Era il posto dove si apprendeva a mandare affanculo, il Regime dei partiti con i suoi ladri e le sue leggi truffa, magari salutando romanamente. Oppure si passava il tempo leggendo i versi di Trilussa.

    IL Saluto Romano

    Quela de da’ la mano a chissesia
    nun è certo un’usanza troppo bella:
    te po succede ch’hai da strigne quella
    d’un ladro, d’un ruffiano o d’una spia.

    Deppiù la mano, asciutta o sudarella,
    quanno ha toccato quarche porcheria,
    contiè er bacillo d’una malatia
    che t’entra in bocca e va nelle budella.

    Invece, a salutà romanamente,
    ce se guadagna un tanto co’ l’iggene
    eppoi nun c’è pericolo de gnente.

    Perché la mossa te viè a dì in sostanza:
    – Semo amiconi… se volemo bene…
    ma restamo a una debbita distanza.

    Trilussa

  4. Checco Spirit - tramite Facebook ha detto:

    Bello l’ articolo! L’ Alvino non esiste più, o almeno io non riesco a guardarlo…

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