DEJA-VU E RILETTURE / RIPENSANDO AI BEATLES

| 21 Agosto 2018 | 0 Comments

di Roberto Molle______

Chi non ha mai amato i Beatles almeno per uno scorcio infinitesimale della propria esistenza batta un colpo, o faccia anche solo un po’ di rumore; e ci si potrebbe scommettere qualsiasi cosa, tanto nessun battito riuscirebbe a coprire il silenzio assordante che insisterebbe a questa provocazione. Chi non ha mai ascoltato i Beatles almeno una volta? Viene naturale di rispondere: ma… nessuno!

A questo pensavo, mentre ero preso dalla visione del dvd di “Eight days a week”, il rockmentary di Ron Howard dedicato ai Fab four. In realtà, si è trattato della sesta o settima visione nell’arco dei quasi due anni dell’uscita del film sul grande schermo.

Quando all’epoca, qualche settimana prima dell’uscita, cominciò a circolare la locandina di “Eight days a week”, mi tornò in mente un libro, che qualche anno prima me li fece amare oltre le canzoni: “Imagine this – io e mio fratello John Lennon” scritto da Julia Baird (una delle due sorelle di John). Praticamente una visione dei fatti “umanizzata”, da dietro le quinte, che non mancava di dare la sensazione dell’esistenza di un livello altro, a tratti anche drammatico, nello svolgimento dei fatti e della vita dei “quattro di Liverpool”.

La sera che andai a vedere il film, tra un mezzo raffreddore incipiente e uno scirocco ad alto tasso di umidità, in una sala praticamente vuota (solo sei persone) provai a fare il confronto tra quel libro e il film. “Eight days a week” possedeva tutti i crismi di un buon rockmentary: una regia, quella di Ron Howard, ineccepibile (e apprezzando il regista posso pensare che sia riuscito a tirare fuori il massimo dal minimo); un montaggio serrato senza sbavature, frammenti di filmati inediti (recuperati anche grazie a molti fans che, all’epoca, c’erano, e che hanno messo a disposizione le loro riprese amatoriali); tante canzoni conosciute da sempre, qualcuna sentita un po’ meno.

Insomma, quanto può bastare per riempire due ore di pellicola e regalare emozioni.

Tuttavia, una certa delusione s’è materializzata.

Innanzitutto, dovetti lasciar perdere lo storyboard tracciato dal libro della Baird e prendere coscienza che il film andava solo a ripercorrere “on the road” lo sfinente susseguirsi dei tours e dei concerti, dall’inizio alla fine della carriera dei Beatles, parallelamente alle pubblicazioni dei dischi e al crescendo esponenziale della popolarità e del successo.

Ci sono state però, alcune cose che mi sono piaciute: in particolare, vedere Brian Epstain e George Martin (manager il primo e produttore discografico il secondo, figure importantissime per la carriera dei Beatles n.d.r) “vivi”; la loro ultima spettacolare esibizione sul tetto del loro ufficio di Londra; la presa di posizione contro la segregazione (e il netto rifiuto di suonare se non fossero stato ammessi anche i fans afroamericani) in occasione del concerto di Jacksonville (Florida); e poi, l’affermazione di Lennon a proposito dell’essere famosi più di Gesù (con repentina ritrattazione, per la verità).

Un aspetto che mi ha colpito (ma non sorpreso) è stato il boicottaggio delle destre (negli Stati Uniti) a causa delle posizioni democratiche, pacifiste e antirazziste dei Beatles.

Alla fine del film si riesce ad avere netta, la serie di cause che portarono alla scelta di non fare più concerti. Spostamenti transoceanici, ritmi massacranti, la chiara consapevolezza di fare parte di un meccanismo che, alla lunga, può arrivare a erodere anche le identità più resistenti.

Così, prima di finire come il “povero” Elvis (questa affermazione è di qualcuno… in un’intervista nel film), fanno la scelta. John, Paul, George e Ringo, decidono di staccare la spina (e questo, è palpabile nelle immagini… quella scelta dilaga fuori dallo schermo e affronta in viso lo spettatore, facendo capire che, fu una scelta giusta) e smettere di tra-vestirsi tutti e quattro allo stesso modo.

Aveva funzionato, Epstain aveva avuto ragione su come muoversi per arrivare al successo, ma oramai erano arrivati i tempi della maturazione, e nuovi orizzonti si delineavano per quei quattro ragazzi che, provenendo dalla working-class inglese, erano riusciti ad affrancarsi dalle loro origini e diventare famosi più di Gesù…In più, potevano fregiarsi del fatto di stare lasciando all’umanità un patrimonio dal valore inestimabile: un numero consistente di canzoni a cui attingere per poter ridere, piangere, vincere, perdere… vivere!

 

 

 

Category: Cultura

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