DOSSIER / “Non è che siamo a Csi, che in mezzora si sa tutto“. MA SONO PASSATI 18 ANNI DAL DELITTO DI CHIARA POGGI ED E’ ORA DI SAPERNE DI PIU’. INTANTO ECCO MOTIVI E PERSONAGGI IN APPUNTI INEDITI DELL’EPOCA ANNOTATI DAL CRONISTA

| 16 Maggio 2025 | 0 Comments

di Giuseppe Puppo __________

Clamorose novità sul delitto di Chiara Poggi, 26 anni, di Garlasco, in provincia di Pavia, uccisa in casa sua il 13 agosto 2007, uno dei casi di cronaca nera che più ha appassionato e diviso gli Italiani, e per cui è stato condannato in via definitiva, dopo ben cinque gradi di giudizio, il fidanzato, Alberto Stasi, in carcere dal 2015, anche se oggi gode del regime di semi libertà per poter andare a lavorare di giorno.

La Procura della Repubblica di Pavia ha iscritto nel registro degli indagati Andrea Sempio, all’epoca dei fatti 19 anni, amico del fratello della vittima, con l’accusa di omicidio. Su istanza dei legali del condannato, fu già indagato nel 2016, ma la sua posizione venne archiviata. Adesso, la svolta.

E’ chiaro, è solo indagato, vedremo se e quando ci saranno ulteriori sviluppi.

Però la notizia è clamorosa, perché riapre il caso, mentre proseguono le nuove indagini __________

All’epoca e almeno per tutta la prima fase delle indagini, seguii giornalisticamente il caso da vicino.

Presi una quantità di appunti e annotazioni sull’intera vicenda che non entrarono nei miei semplici articoli di cronaca nera di allora.

Li ho cercati e ritrovati, alla luce di quanto sta avvenendo in questi giorni e li ho trascritti.

Li pubblico adesso qui su leccecronaca.it perché danno un quadro di insieme di motivi e personaggi ritornati prepotentemente adesso di attualità dopo diciotto anni.

Ripeto, sono appunti e annotazioni che risalgono a 18 anni fa.

Eccoli.

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La letteratura – il suo pregio più grande – ha sempre la potenzialità migliore, più di qualunque altro mezzo, non solo di raccontare, ma soprattutto di capire e far capire qualcosa della molteplice e composita realtà, e comunque di raccontare quello che gli altri media non possono raccontare.

A volte poi addirittura la realtà ha più fantasia di noi, quando inventa essa stessa circostanze incredibili che a nessuno, nemmeno a mettercisi apposta ed esagerare, verrebbero mai in mente.

Quale romanziere, tanto per fare un solo  esempio, avrebbe potuto scrivere la storia di un uomo dal passato oscurato, poi filatelico di mestiere, in relazione a due giovani donne, sia pure ad anni di distanza, entrambe scomparse misteriosamente, senza lasciar traccia?

Così a volte la stessa letteratura – pure, come già detto, il mezzo migliore – fatica a tenere dietro, a rendere, ad esprimere, quanto la realtà, la verità effettuale delle cose, ha invece compiutamente, per quanto tragicamente, creato.

Un caso, più di tutti: il delitto dell’estate 2007, l’omicidio di una ragazza, Chiara Poggi, a Garlasco.

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La cronaca nera è stata sempre il primo oggetto dell’interesse collettivo. “Sesso, soldi e sangue” formano il trinomio dell’acme. Poi, a parte le dosi più o meno ampie di  morbosità, guardiamo tutti alle cronache dei giornali e dei telegiornali, per capire che cosa cambia, nel bene, nel male, intorno a noi, anche  per misurarci e compararci, spesso per poi assolverci con indulgenza.

Qualche caso, pompato ad arte, diviene più spesso a torto, senza cioè ragioni plausibili, che a ragione, per gli elementi dirompenti che contiene, più famoso degli altri, magari d’estate, quando c’è più spazio per tutto, anche di colonne sulle pagine dei giornali e di minuti sulle scalette dei telegiornali, che comunque  bisogna pur riempire.

Detto ciò, c’è una vicenda che ha segnato una nuova era dell’informazione, in cui ora, quando il caso divampa, essa diventa intrattenimento prolungato, spettacolo senza soluzione di continuità, e cioè  le indagini si fanno in diretta, con i mass media si impostano le strategie processuali e i processi si celebrano sulle colonne dei giornali e soprattutto negli studi televisivi: l’assassinio di Samuele Lorenzi, a Cogne, in onda a varie fasi fin dal 2001.

Poi, è toccato a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro, al rapimento del piccolo Tommy a Parma, al massacro di Erba e  all’assassinio di Barbara Cicioni a Marsciano, vicino Perugia.

Infine, la morte violenta di Chiara, a Garlasco, agosto 2007, in cui, per tutte queste ragioni, la tendenza in atto trionfa.

Ma mai come in questa circostanza, al di là della storia che ognuno più o meno conosce, almeno superficialmente, perché  pezzo forte di giornali e telegiornali, c’è bisogno di chiedere aiuto ad altri mezzi di comunicazione di massa, ad altre discipline, per ricostruire compiutamente, nelle loro molteplici e multiformi suggestioni, i tanti significati e i tanti significanti dell’accaduto.

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Il 13 agosto 2007 viene trovata morta nella sua abitazione di via Pascoli, a Garlasco, 1) nel Pavese, Chiara Poggi, 26 anni, laureata in economia e commercio, impiegata in uno stage di informatica in un’azienda di Milano.

E’ stata sorpresa di mattina e finita a colpi di oggetto contundente, con accanimento e ferocia, dopo aver aperto in abbigliamento casalingo a qualcuno che evidentemente conosceva bene.

Era sola nella villetta di famiglia: lasciati i genitori ancora in vacanza nel Trentino, avrebbe dovuto trascorrere il ferragosto sulla riviera ligure, a Spotorno, insieme al fidanzato, suo concittadino, di due anni più giovane di lei, Alberto Stasi 2) .

Il ragazzo è, almeno ufficialmente, l’unico indagato, in quanto “l’ultimo ad averla vista in vita e il primo ad averla vista morta”, come spiegato dagli inquirenti – in primo luogo il pubblico ministero Rosa Muscio – ai numerosi giornalisti, presenti stabilmente sul posto, in una sovrapposizione mediatica che fra conferme e più spesso smentite, verità e più spesso mezze verità, novità e più spesso bugie, rivelazioni e più spesso colpi di scena, di giorno in giorno sempre di più monta massicciamente. 

Nelle chiacchiere del paese e del villaggio globale, vengono però sospettate anche due cugine della vittima, gemelle, Stefania e Paola Cappa, 3) 23 anni. Diventano protagoniste.

Hanno confezionato la prima foto ufficiale della vittima con un fotomontaggio 4) – su internet diventerà presto un cimento collettivo – per apparire insieme a lei. Ecco, apparire: le gemelline sono state sempre divorate dalla aspirazione di apparire in televisione, di fare le veline, di fare insomma spettacolo.

Ci riescono, infatti, contese, in un rapporto di amore e odio, dai giornali, in alcuni pochi, ma intensi, lunghi giorni, anche perché il delitto di Chiara è diventato reality – show5) l’inchiesta giudiziaria spettacolo.

Il loro papà, avvocato ed economista, le difende: “sono ragazze”, il succo; ma sono innocenti ed estranee al misfatto e per le due figlie gemelle evoca, denunciandolo,  uno scenario peggiore dell’ incubo di Kafka 6) .

Indagato e sospettate a parte ( anche per la figura specchiata, apparentemente e pure dopo tutte le opportune verifiche, della vittima, che sembra non celare e non avere proprio niente da nascondere, tutta casa, fidanzato, volontariato e aspirazione al lavoro – ma in direzione seria e diametralmente opposta a quella verso cui sono orientate le cugine –  orgogliosa di poter presentare “un curriculum che parla da solo”; pure per la mancanza di qualsiasi ipotesi plausibile, tipo rapinatore occasionale, o amante segreto ) l’inchiesta però segna il passo.

Indagini, rilievi, perfino gli ormai immancabili e celebri Ris di Parma, il nucleo dei Carabinieri specializzato nelle investigazioni scientifiche, non sembrano portare però da nessuna parte.

Un bel problema.

C’è appena una ricostruzione sommaria dell’accaduto; l’indagato, per quanto traballante, ha retto e ha un alibi; le due sospettate non c’entrano seriamente; non c’è l’arma del delitto, tanto meno il movente, né si può ipotizzare in qualche modo uno sconosciuto, o una rapina, niente, nient’altro al di fuori dell’ambito famigliare, o amicale, come ha detto e ribadito il procuratore capo.     

Dopo due settimane, infatti, il procuratore della repubblica di Vigevano,  7) Alfonso Lauro, è costretto ad ammettere sostanzialmente che l’inchiesta della magistratura non ha prodotto niente di concreto.

Lo dice in una conferenza – stampa campale, in cui fra l’altro rimprovera i giornalisti: “Non dovete eccitare la morbosità della gente, le indagini sono complicate e scientifiche, mica si fanno in televisione”. Con quel a tratti marcato- specie nelle doppie “sc” e “gl” – tipico e simpaticamente caratteristico dei napoletani, fedele anche al suo cognome, il capo della procura si sfoga pure, facendo capire che in primo luogo ci vuole tempo, oltre che a tanta pazienza:“Non è che siamo in tv, non siamo  a Csi, che in mezzora si sa tutto8) .    

Tantissimi rilievi; qualche sospetto non fugato, ma impossibile da portare e provare in tribunale ancora sul fidanzato; nessuna certezza.

Intanto, arrivano i memoriali sui settimanali.

Arrivano le proposte più o meno indecenti di Fabrizio Corona9) il quale, evocando la protagonista del film di Gabriele Muccino “Ricordati di me 10) che voleva fare la velina, e dalla quale il fotografo diventato famoso per le sue disavventure giudiziarie dice di aver avuto l’ispirazione, va di persona a Garlasco, a scritturare le gemelline, per quanto senza riuscirci, almeno in prima battuta, per le sue “paparazzate” e “comparsate” varie.

Cominciano gli “speciali” in tutte le televisioni, pubbliche e private; e figurarsi cosa accadrà quando, finita la pausa estiva, torneranno in video coi loro salotti e salottini Bruno Vespa ed Enrico Mentana; sempre intanto, con una originalità che basta da sola a far onore, conduttori vari e assortiti intervistano il criminologo Francesco Bruno, per raccogliere le sue solite parole in libertà; mentre manca ancora l’avvocato Taormina, ma forse è soltanto questione di tempo.

***

Intanto, un contadino impiccione, impiccione forse proprio perché in qualche modo ossessionato addirittura come tutti i suoi paesani, vede una busta di plastica in un canale di irrigazione, una roggia, “un cavo”, come lo chiamano a Garlasco, che si butta nel Ticino, dopo aver percorso chilometri tutto intorno alla zona, passando fra l’altro anche vicino la strada della villetta della vittima. Riesce pazientemente ad attirarla e può così vedere cosa c’è dentro: vestiti e un paio di scarpe femminili, sporchi di sangue.

Però, gli inquirenti non arrivano né conferme, né smentite: ci si chiede se è perché non vogliano darle, o perché non ne abbiano, malgrado i sofisticatissimi mezzi adoperati, ultimi speciali solventi chimici, capaci rilevare qualsivoglia, anche minima, traccia biologica, su quella che abbiamo imparato a chiamare “la scena del crimine”.

I tempi, dettati dall’attesa dagli esiti dei rilievi, ammesso che si rivelino decisivi, comunque si allungano di settimane.

La soluzione del mistero appare ancora lontana, anche in considerazione del fatto che, pur avendo a disposizione le risposte della scienza, toccherà poi sempre agli inquirenti interpretarle, ridistribuirle e assegnarle correttamente.

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1) Garlasco

Siamo qui nel profondo Nord Italia.

Una “regione” omogenea e ben uniformemente caratterizzata, dalla storia e dalla vocazione agricola, al di là di quella “politica” e amministrativa della Lombardia: la Lomellina.

Quasi diecimila abitanti, in provincia di Pavia, “la provincia pavese”, come si chiama il quotidiano locale: a sud ovest c’è poi già la provincia di Alessandria, in Piemonte, a sud ovest quella di Piacenza, in Emilia e, sulla direttrice dell’autostrada Milano – Genova, la Liguria.

Un santuario religioso: il Santuario della Madonna della Bozzola, la domenica meta dei fedeli cattolici.

Un tempio profano, nei fine settimana meta di giovani e meno giovani, ormai da una generazione e di Garlasco l’elemento più significativo.

Un grandissimo complesso, ora anche di altri intrattenimenti, come giochi, punti di ristoro, di ritrovo e di soggiorno, l’estate all’aperto, con luci e piscina, di sale concentriche, le rotonde, appunto, tutt’intorno alla principale, dove si ballano i vari generi musicali, dagli anni Sessanta, quando venivano a esibirsi i cantanti più famosi, a oggi, con i migliori dj ad animare e le più belle ragazze ad esibirsi.

Tutto intorno campi di mais e di fieno, e alcune risaie.

I canali segnano il perimetro del paese. Anche in via Giovanni Pascoli, dove ci stanno nove villette. Quel 13 agosto 2007, solo tre erano abitate. In una di esse, ci stava Chiara Poggi, da sola, perché gentori e fratello erano anccora in vacanza.

Così quella mattina Chiara Poggi non aveva potuto rispondere al rito quotidiano del semplice squillo, senza conversazione, ché talmente era chiaro il significato del “va tutto bene”, che non ce n’era bisogno e poi pure perciò si risparmiava sullo scatto alla risposta della scheda, intorno alle 9.30.

Così come non sarebbe più andata al mare in Liguria dopo Ferragosto insieme a lui e l’estate sarebbe rimasta limitata a quel fine settimana passato poco prima a Londra insieme al fidanzato e all’amico Marco Panzarasa, col quale egli passava lì un  soggiorno di studio – vacanza.

Così – dopo anni di tragitti andata e ritorno, per studiare prima e adesso anche per lavorare – non avrebbe poi più preso il pullman  che da Piazza della Vittoria, a Garlasco, porta a Milano- il centro di gravità permanente di tutta quella zona – a viale Famagosta, dove c’è la fermata della metropolitana e quindi si può andare in qualsiasi punto della grande città.

Anche in via Savona, alla “Computer sharing”, una grossa azienda di informatica, specializzata nei supporti alla pubblica amministrazione, dove Chaira Poggi lavorava da sei mesi, con buone prospettive, dopo aver superato quel periodo di prova in corso, di sconfiggere il destino di precarietà cui sembrano purtroppo destinati i giovani di oggi.

Del resto, com’ella amava dire, a sottolineare le proprie capacità e le proprie volontà di perseguire un obiettivo lavorativo importante e concreto, il suo era “un curriculum che parla da solo”. 

Un fidanzato tranquillo, un rapporto normale, con vaga progettualità,  ma tanta comprensione e molta condivisione al presente.

Nient’altro: né amanti nascosti, né relazioni pericolose, né scheletri negli armadi, anzi, nelle stanze della vita prematuramente e violentemente troncata di Chiara Poggi, non c’erano nemmeno gli armadi.

2) Alberto Stasi

Questa somiglianza fra Alberto Stasi e il cittadino più famoso della zona, il cantante Rosalino Cellamare, in arte Ron, 55enne, che calca le scene musicali italiane fin dagli inizi degli anni Settanta 1970, nonostante le due foto qui riportate ne diano un’idea soltanto approssimativa, è, a parte i tre decenni di differenza di età,  stupefacente, un’altra coincidenza, chissà se significativa.

A dire il vero, Ron non è di Garlasco, come tutti dicono, ma del piccolo paese di Dorno, che sta a pochi chilometri, anche se ci è andato poi ad abitare.

Ma di Garlasco parla, sostenendo che in questi giorni fosse diventato un piccolo cimitero: “Speriamo di non diventare come Cogne”. Poi chiama al telefono il sindaco Enzo Spialtini e gli dice di essere stato mal interpretato: “Garlasco non è Cogne” .

Eppure la famiglia Stasi non è originaria di Garlasco. Alberto vi arriva dopo aver finito il liceo scientifico a Mortara e prende a frequentare il locale oratorio, facendo volontariato, la sua passione, oltre allo studio: si iscrive infatti alla Bocconi di Milano e, come è noto, la morte drammatica della fidanzata Chiara lo coglie che sta preparando la tesi di laurea in Economia e commercio.

Anzi, a suo dire, la spiegazione del fatto, oggettivamente strano, di non aver voluto trascorrere la notte insieme alla fidanzata, pur avendo entrambi la loro casa libera dagli altri famigliari, era proprio nella scadenza inderogabile del 17 agosto, data entro cui doveva consegnare la tesi e perciò voleva svegliarsi presto la mattina dopo e darci dentro sui tasti di quel computer, su cui ovviamente sono state effettuate perizie  tecnica per stabilirne orari di uso, diventate perciò fondamentale, anche se degli esiti nulla è stato ufficialmente rivelato dagli inquirenti.

Quell’ultima notte, così straordinariamente normale: i cartoni della pizza presa dalla pizzeria dietro l’angolo; un vecchio film replicato per l’ennesima volta in tv, “Lo squalo”, di Steven Spielberg, con quell’orrore gratuito, che più che l’incarnazione della cattiva coscienza del popolo americano, ad Amity Bay, era il presagio della tragedia che avrebbe di lì a poco divorato le loro vite a Garlasco; la buonanotte e ognuno a casa sua.

Suo papà Nicola è originario di Ruvo di Puglia, ma si era trasferito a Milano negli anni Settanta. Aveva sposato una milanese e avviato un’attività commerciale di auto – ricambi. Sesto San Giovanni, Segrate, Liscate: l’hinterland di Milano, quindi e poi le immediate vicinanze, sono la geografia dell’anima di questa famiglia che corrisponde a quella fisica, anche con l’ apertura della nuova sede di auto – ricambi e auto – accessori a Garlasco, dove tutti insieme erano andati infine a vivere da qualche anno e dove stavano costruendo pure una nuova, grande dimora. 

Sei stato tu ad uccidere Chiara”?

Alberto si è sentito rivolgere la fatidica domanda, nel corso dei lunghi interrogatori, cui, da persona informata sui fatti, è stato sottoposto, dal pubblico ministero Rosa Muscio, 34 anni, sposata, originaria di Potenza, una dei due collaboratori del “capo” Alfonso Lauro e competente perché di turno quella famosa mattina.

Ha negato, si è detto addolorato dell’accaduto, ha sostenuto di aver detto tutto quello che c’era da dire.

Ma perché è stato l’ultimo a vedere Chiara da viva e il primo a vederla da morta; perché, per quanto spiegati e rispiegati, alcuni particolari dei suoi racconti non hanno convinto; perché un momento di follia, per futili motivi, come un attacco di gelosia, resta pur sempre un movente razionalmente ipotizzabile e infine perché mancano  elementi di prova inconfutabili a sua discolpa, per tutte queste ragioni resta indagato, anzi l’unico indagato. 

Eppure la madre di Chiara, abbracciandolo e baciandolo pubblicamente, gli ha detto: “Possono dire quello che vogliono, io non ci credo che puoi essere stato tu”.

Altro che le chiacchiere di paese…

Certo, noi abitanti del paese globale abbiamo visto in tv a più riprese dire: “Che schifo chi tocca i bambini!” proprio da chi, come si è scoperto successivamente, aveva rapito e ucciso il piccolo Tommy, ogni limite dell’inverosimile quindi è stato già superato: ma questa mamma distrutta per la morte della figlia che oltre ogni dubbio, fidandosi del suo intuito, fa e dice cose del genere, sarebbe il limite invalicabile, la prova, per quanto giuridicamente inammissibile e pure manifestatamente irrazionale, – credo quia absurdum – dell’innocenza di Alberto.

Lui, che amava Chiara, con la quale voleva proseguire a camminare insieme nella vita, sposare pure, non appena si fossero resi economicamente indipendenti con loro lavoro, da entrambi progettato a Milano:

Sono scosso, non riesco a fare niente, penso continuamente a Chiara. Chiedo rispetto per lei e anche per me…

Sto male fisicamente, sto male dentro…

Le persone che mi stanno più vicine, che mi danno sostegno ogni giorno sono i miei genitori e due amici…

Sono distrutto, mi sento crocefisso, ho raccontato tutto, più di questo non posso fare, ora posso solo aspettare”.

Eppure è contro di lui che si concentrano le “attenzioni” degli inquirenti e di giorno in giorno sempre di più, in attesa degli esiti delle indagini scientifiche, intese come elementi capaci di inchiodarlo definitivamente, con spessore di prove da portare in tribunale, per una condanna fino a trent’anni di carcere, cioè una vita, Alberto Stasi entra nel tunnel buio del sospetto prima e della colpa poi, dove si sta malissimo:

Ogni giorno di attesa, ogni nuovo elemento per me è come un macigno che rotola sul mio tormento.

A questo punto non so più quale sorte aspettarmi, soprattutto non so quando e come potrò uscire da questo incubo”.   

3) Stefania e Paola Cappa

Due ragazze controverse, che – al di là delle voci discordanti della gente che mormora e al di là delle loro stesse voci, che hanno detto tutto e il contrario di tutto, a giorni alterni – devono ancora trovare la loro strada; studentessa di legge la prima, di scienze della comunicazione, la seconda, entrambe in giro, per lavoro, per piacere, vai a sapere, per i locali della zona. Poi, aspiranti veline, tre volte sui set di “casting” – come si chiamano in gergo le strutture che reclutano ragazze da utilizzare per le trasmissioni televisive – di Mediaset.

Intanto calano nella vicenda della morte violenta della cugina con la pesantezza di un macigno e con la grazie di un pachiderma.

Per quanto possa essere interpretato come un gesto di affetto e di coinvolgimento, il “taroccamento” della foto di Chiara cui le gemelline hanno fatto unire le loro, col vestito buono della festa, è indice delle reali intenzioni e delle vere aspirazioni di Paola e Stefania:  apparire in qualche modo all’attenzione dei mass media, diventare un personaggio.

Poi, “il memoriale” che appare con la firma di Paola Cappa sul settimanale “Oggi”, per quanto sia frutto di un’intervista orale realizzata da Giuseppe Fumagalli e opportunamente registrata: registrazione che verrà utile quando successivamente la famiglia Cappa smentirà quell’articolo.

L’altra bugia evidente è a proposito del fotomontaggio e nel momento in cui il settimanale esce in edicola lo si sa già, per via della confessione del fotografo autore dell’abile messinscena.

Ecco comunque il testo completo di quanto scritto/detto da Paola Cappa per “Oggi”:

“Ho letto e riletto cento volte la stessa scena. Chiara che apre la porta di casa, una persona che entra, la prende a martellate in testa e la abbandona morta sulle scale. Chiara non c’è più, mi dico, ma non riesco ad accettare la sua fine. Ho l’impressione di essere sprofondata nella preistoria. Non vedo niente di umano in questa storia. E dopo tanti giorni non riesco ad accettare nulla di quel che è successo.

Anche perché mai come adesso avverto la presenza di Chiara. Mai come adesso la vedo vicina e sorridente. Mai come adesso mi sembra di sentire la sua voce.

Dicono tutti che era molto timida. Pudica, dico io. E quando dico pudica non penso a una suorìna, mi riferisco a una persona che ha grande rispetto per se stessa e per gli altri. Riservata, pulita, sempre educata con tutti. Sì, forse, anche timida. Ma quando è così, anche la timidezza diventa una bella cosa. È come se lasciasse trasparire una fortissima sensibilità.

È come se proteggesse l’anima da tutte le volgarità, le sguaiataggini e le bassezze del mondo d’oggi.

L’ho capito con l’età, quando ho imparato a conoscere Chiara e la profondità del suo spirito.

Aveva un irrinunciabile bisogno di studiare tutto e tutti, per capire sempre persone e situazioni. Per aprirsi con qualcuno aveva bisogno di fidarsi ciecamente. Senza riserve.

Di tutto quello che è stato scritto di vero c’è solo una cosa. Se lunedì 13 agosto ha aperto al suo assassino, lo ha fatto entrare in casa e gli ha girato le spalle è perché, chiunque fosse, aveva la sua piena fiducia. Non c’erano scorciatoie per nessuno con Chiara. Nemmeno per me o Stefania, che eravamo sue cugine.

Abbiamo dovuto crescere, conoscerci e poi, con gli anni, è maturato anche il nostro rapporto. Da piccole ci frequentavamo spesso. Mia mamma e suo papà sono fratelli e avevamo in comune nonno Angelo, che stava nella vecchia casa dei Poggi. Passavamo tutti i pomeriggi insieme. Chiara diceva che da grande voleva fare la parrucchiera e noi eravamo le sue prime clienti. Stefania e io avevamo lunghissimi capelli biondi e lei passava interi pomeriggi a pettinarci. Eravamo capaci di restare per ore sul dondolo a parlare, parlare, parlare.

Si parlava, ma per anni non abbiamo avuto un vero rapporto confidenziale. Quello è venuto dopo.

Negli ultimi tempi tra noi era un continuo scambio di segreti. Ci dicevamo tutto. Se devo dire quando tra noi cominciò quella complicità, penso a quella fotografia apparsa su tutti i giornali, dove siamo tutte e tre vestite di rosso.

E’ un’immagine che risale a cinque anni fa, all’unica vacanza che abbiamo fatto insieme. Eravamo tutte e tre a Loano, ospiti di una zia. A Loano non c’è granché, non ci sono locali e dopo una giornata al mare non rimane che un gelato e una passeggiata per il centro. Una delle cose più divertenti era la sera prima di uscire, quando dovevamo decidere come vestirci, come truccarci e farci belle. Chiara stava al gioco. Una sera l’abbiamo sfidata. «Dai», le abbiamo detto, «mettiti un bel top colorato che ci facciamo fare qualche bella foto». E quando lei ha preso dal cassetto quella camicetta rossa, io e Stefania subito ne abbiamo scelta una dello stesso colore. È nata così la foto che io e mia sorella abbiamo portato davanti alla casa di Chiara, il giorno in cui l’hanno massacrata.


E’ stato un gesto che abbiamo fatto con la massima spontaneità, che forse avremmo dovuto evitare. Nel ciclone di questi giorni abbiamo letto e sentito di tutto. In quell’immagine, dove eravamo tutte vestite allo stesso modo, c’è stato addirittura chi ha visto la prova di un legame morboso. Di morboso io vedo solo la volontà di speculare su una tragedia. E’ un’immagine bella e pura che difendo come un mio tesoro personale e che mi accompagnerà sempre.

E’ lo splendido ricordo di una notte irripetibile, in cui ne abbiamo combinate di tutti i colori. La zia prendeva delle gocce che la facevano dormire fino al mattino e noi siamo uscite promettendo che saremmo rientrate presto.

Ma quella notte Chiara ci trascinò in giro tutta notte.

Siamo state in tutti i locali di Alassio e abbiano fatto l’alba alle Rocce di Pinamare, una discoteca bellissima, che finisce sulla spiaggia, con la gente che si disperde sui lettini di fronte al mare, la musica bellissima e l’energia travolgente di una festa. Fu una notte memorabile. Avevamo ballato come pazze e siamo rientrate alle sei di mattina facendo attenzione a non svegliare la zia.

Ecco, io credo che quella notte tra noi sia nato qualcosa di speciale. La fuga, il senso di assoluta libertà, la musica, il ballo e lo splendore di quella notte d’estate ci avevano rese complici. Di colpo avevamo capito che Chiara non era solo una brava ragazza, tutta presa dai suoi impegni di studio.

Era una di noi.

Fu come stringere un patto. Chiara era più grande, noi non avevamo ancora diciotto anni anni.

Ma era diventata la terza gemella.

Tra di noi c’era uno spirito di sorellanza.

Mentre scrivo è come se la vedessi. Sorrideva sempre. Mai vista col muso. Nemmeno di recente, quando mi ha confidato che si trovava male coi colleghi e le colleghe dell’azienda di Pavia in cui stava facendo uno stage. Le bastava prendere in braccio uno dei suoi gatti per dimenticare tutto. Amava tantissimo i gatti. Ne aveva due. Li aveva chiamati Piuma e Minù. Ogni anno voleva un calendario grosso e spesso, con la foto di un gatto per ogni giorno dell’anno.

Chiara aveva un dono di natura: sapeva dare colore alla vita. Di punto in bianco si inventava una cosa e la faceva. Un anno fa disse che avrebbe rivestito le pareti di camera sua con quelle cartoline distribuite gratis nei bar, nelle librerie o nei metrò. In pochi mesi c’era riuscita e aveva tappezzato la stanza di immagini tutte diverse l’una dall’altra. Di questo ho parlato quando i carabinieri mi hanno voluto sentire.

Qualcuno mi ha chiesto se non avevo qualche strana coincidenza da segnalare. Ne ho una, ma non mi sembra di grande aiuto alle indagini. Il 13 luglio sono caduta dalla bicicletta e mi sono rotta il ginocchio. Mi sembrava una tragedia. Dopo un mese esatto, il 13 agosto, Chiara è stata massacrata. Io ci ho pensato. Sarà stupido ma l’ho vissuto come un’ultima prova della nostra sorellanza.

E’ come se la sentissi: “Dai, Paola, non fare tragedie per un ginocchio rotto!”

Chiara come me amava questa campagna.

Ci sono meno zanzare, meno rane e meno nebbia, aprono i ristoranti cinesi, chiudono le vecchie trattorie e mio papà dice che sono tutti segni di decadenza. Avrà ragione, ma a me piace lo stesso. Le risaie sono uno spettacolo che nell’arco di un anno continua a cambiare. In primavera, quando sono tutte allagate, un giorno all’ora del tramonto io e Chiara ci siamo fermate a guardarle. Una magia. Eravamo in silenzio e avevamo l’impressione di essere in mezzo al mare, sospesi sull’acqua.

Chiara lavorava a Milano, ma non avrebbe mai lasciato la sua campagna. La sentiva come la sua terra. I Poggi sono agricoltori e nella storia della famiglia, Chiara era stata la prima a prendere una laurea. Per lei era un motivo di orgoglio, ma lo sentiva anche come un impegno nei confronti di tutta la famiglia. Aveva una carica impressionante. Dava tutti gli esami e usciva sempre col massimo dei voti.

Una volta, a Natale ci mostrò il filmato della tesi ci lasciò di sasso. Vederla così sicura in mezzo a tutti quei professori e sentirla rispondere con prontezza a tutte le domande, era stata la conferma che sotto una superficie di timidezza c’era una ragazza corazzata, consapevole di quello che valeva e di quello che voleva.

Se penso a lei mi viene in mente un detto: «Chi si accontenta gode». Qualcuno lo può interpretare come una tendenza alla rinuncia. Non è così. Anzi, è proprio il contrario. Guardando mia cugina ho capito che il percorso più ricco di frutti e di sorprese passa attraverso la quotidianità.


Chiara ha capito cose che sfuggivano ad altre persone della sua età. Aveva l’incrollabile certezza che nella vita si può ottenere tutto, procedendo un passo dopo l’altro, costruendo le cose giorno per giorno. Con la sua semplicità ha superato ogni ostacolo e col sorriso sulle labbra ha sempre ottenuto tutto quello che voleva. Non aveva le velleità di chi apre un libro di diritto e già se la tira da avvocato e in ventiquattr’ore pretende di passare da una cascina di Garlasco a un attico di New York.

Chiara conosceva il valore e il potere del tempo. Una conoscenza che oggi hanno in pochi.

Lei l’aveva perché è nata in una famiglia di agricoltori ed è stata educata ai ritmi della terra, che non regala niente e per fare una manciata di riso chiede lavoro e pazienza. 

Io, Chiara, la ammiravo.

La nostra sorellanza si sviluppava tutta in uno scambio di confidenze. Sui ragazzi non amava esporsi troppo. Non so se prima di Alberto ha avuto qualcun altro. Quando per la prima volta ci ha parlato di lui è stata una sorpresa per tutti. Sapevo chi era, perché avevamo frequentato lo stesso liceo a Mortara. Un ragazzo di paese, come si dice dalle nostre parti. Semplice come lei. In giro si vedevano poco. Qualche volta si trovavano con due, tre amici al bar Italia, ma se avevano in ballo un esame ognuno si chiudeva a casa sua a studiare. Fare le stesse cose li faceva sentire vicini.

Stavano insieme da quattro anni e Chiara aveva confessato a mia sorella Stefania che Alberto era diventato per lei troppo importante. Il loro legame era fortissimo e da un anno avevano cominciato a fare progetto per il futuro. Prima o poi si sarebbero sposati.

Di Chiara non dimenticherò la generosità. Quando mi sono lasciata col mio ragazzo, lei era l’unica che riusciva a confortarmi. E sei anni fa, quando ho cominciato a soffrire di anoressia, si è fatta in quattro per trovare prodotti che non suscitassero il mio rifiuto.

Quando, poi, mi sono rotta il ginocchio, appena aveva un momento libero veniva a trovarmi. È venuta in ospedale il 18 luglio, un giorno prima di partire per l’Inghilterra. Alberto era a Londra per un corso. Lei mi disse che aveva un voglia matta di partire, per vederlo e riabbracciarlo. Al ritorno era ancora venuta a trovarmi. Non vedeva l’ora che i suoi partissero per rimanere qualche giorno sola con Alberto.

Chiara è unica nella sua purezza. È come l’aria come l’ossigeno. Come una cosa visibile e invisibile. È perfetta. E lo so adesso che non c’è più. Quando le persone non ci sono più ci si rende conto di quel che valgono. Mi sento molto fredda. Non ho avuto ancora modo di metabolizzare. Prima o poi esploderò. Soffro di anoressia da sei anni. È come essere in un tunnel, una cosa molto strana. Ma oggi so che la vita va vissuta”.

4) Il fotomontaggio … internet

Ecco, la foto famosa, o famigerata.

Ma ad essa è collegato un altro aspetto sconcertante.

Con quelle certe dosi di leggerezza, strafottenza, incoscienza, approssimazione, creatività repressa e obliquamente espressa, che sono le caratteristiche principali non di internet nel suo complesso, bensì di alcuni usi invalsi di internet – ché esso un mezzo è, per giunta dalle potenzialità enormi e straordinarie  e il suo valore è dato esclusivamente dall’uso che come tale ne viene fatto – la famosa o famigerata foto taroccata dà il là a tutta una serie di “elaborazioni” in cui, ad opera di anonimi, quanto creativi naviganti, le gemelline appaiono accanto a questo o a quello, in un sito appositamente aperto, poi presto chiuso, per non essere accusato di speculazione, come ipocritamente la chiusura viene spiegata, dopo centinaia di fotomontaggi ricevuti e pubblicati.

In realtà, i promotori dell’iniziativa sono esattamente come le gemelle “K”: sì, così ormai sono chiamate su internet e, da lì, poi pure sui giornali.

Due i rilievi: primo, le sorelle Cappa generano per lo più antipatia; secondo, internet è ormai caratterizzato da tale vena goliardica, fatua e vagamente stupida e spesso pure idiota.

A Stefania e Paola il popolo di internet imputa – come dire? – la spregiudicatezza, del fotomontaggio:

Certo ritoccare una foto non è reato, non hanno fatto niente di male, tuttavia hanno avuto la forza, nel giorno dell’assassinio della cugina, di posare come popstar e di mettersi al pc per realizzare un artefatto che avrebbe portato i loro volti su giornali e tv”.

Ma ci sono anche coloro i quali le difendono, considerandole non dissimili dalla maggior parte delle ragazze di oggi, con le loro stesse aspirazioni e la loro stessa spregiudicatezze nel perseguirla: figlie del loro tempo, insomma.    

Quando poi il “dibattito” deborda sui giornali, diventa materia di puro esibizionismo, esattamente come quello che caratterizza gli animatori di altre modalità.   

Abbondano i riferimenti alle due sorelle di Garlasco anche negli altri strumenti del web, blog, video e quant’altro. in cui si nota che, antipatia di fondo che si conferma massicciamente, c’è sempre una buona dose di esibizionismo pur in chi l’esibizionismo critica.

Vedi il video su “Youtube” di tal Debbie, che prende spunto dall’aver conosciuto a suo dire Paola e Stefania Cappa in vacanza in montagna a Champoluc, in Valle d’ Aosta e da ciò parte in una serie di considerazioni sulla televisione, il mondo dello spettacolo e la presenza femminile: ma implicitamente rimanda alla sua attività artistica, di cantautrice.

Infine – ma qui siamo alla semplice fenomeno di riflessione di quanto avviene dappertutto, anche in ogni bar dello sport e del commercio – si registrano svariate ipotesi e molteplici  interpretazioni: fantasmi che escono da nick anonimi e acquistano spessore di contenuti. 

5) Il reality – show

E’ scattato in maniera netta e corposa nella nostra società contemporanea, così come essa si è andata progressivamente caratterizzando, dominata dai mezzi di comunicazione di massa, un meccanismo preciso: un individuo diventa sempre più spesso “famoso”, cioè attira l’attenzione degli altri e diventa un modello da imitare, un personaggio da seguire, comunque un qualcuno degno di attenzione e considerazione, chi appare.

Non si impone per quello che propone in positivo, o per quello che sa fare, ma semplicemente perché è noto, cioè è stato messo al centro dell’attenzione dai mezzi dai mass – media, la televisione in primo luogo.

Quindi abilità, valenza artistica, o spessore morale, non contano: l’industria dell’informazione crea dal nulla i suoi “eroi”, per pi poterli usare a piacimento per veicolare i propri contenuti di spettacolo e  realizzare i propri interessi di consumismo.

La notorietà dunque come massima realizzazione possibile; l’anonimato, la peggiore sofferenza.

Uno degli strumenti, in cui per giunta la caratteristica di basarsi sulla quotidianità, sulla normalità e sulla rappresentazione dell’ovvio, esalta tutto il contesto generale, portandolo all’apoteosi, è il così detto reality – show.

Dopo anni di grandi fratelli e di isole dei famosi spesso la logica del reality – show finisce dunque per sovrapporsi alla realtà stessa, anzi spesso tout court  per sostituirla.

6) L’ incubo di Kafka

Si è scoperto che le gemelline cugine della vittima, oltre ad aver falsificato una foto pur di apparire sui giornali, hanno rilasciato interviste e chiesto di lavorare nel mondo dello spettacolo. Tutto il contrario, in maniera finanche stridente, di Chiara.

A parte le valutazioni di ordine morale che il loro comportamento ingenera, in presenza dell’atroce delitto di una parente stretta, finiscono esse stesse nel novero dei sospettati.

Allora il padre, Ermanno Cappa, le difende. Del resto, è avvocato, autore di testi giuridici, oltre ad essere esponente accreditato di banche e associazioni bancarie.

opo aver convocato i giornalisti presenti in maniera massiccia in paese, tiene una appassionata arringa, in cui, da genitore, invoca comprensione, prima che rispetto, per le giovani figlie e poi, da professionista, evoca uno scenario kafkiano per condannare i sospetti che ingiustificatamente si sono addensati sulle ragazze:

Da Lomellino con i piedi per terra dico che se basta questo a far nascere un sospetto di omicidio, allora Kafka era un dilettante” 

Il riferimento è colto e corretto.

Lo scrittore cecoslovacco Franz Kafka, uno degli esponenti più originali ed autorevoli della letteratura del Novecento, ha dato forma ad alcune celeberrime suggestioni, soprattutto esprimendo, in forme visionarie, platealmente surreali, l’inquietudine, l’estraneamento, l’alienazione dell’uomo contemporaneo.

Per la precisione, nel romanzo “Il processo” racconta in un quadro di fondo agghiacciante la vicenda di un rispettabile uomo d’affari, Josef K. il quale  si ritrova, senza mai riuscire a capirne e nemmeno a saperne le ragioni, indagato,  processato, condannato e alla fine ucciso.

“Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché,  senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato.  

La cuoca della signora Grubach, la sua padrona di casa, che ogni giorno verso le otto gli portava la colazione, quella volta non venne.

Ciò non era mai accaduto.

K. aspettò ancora un po’, guardò il suo cuscino la vecchia signora che abitava di fronte e che lo osservava con una curiosità del tutto insolita in lei, poi però, meravigliato e affamato a un tempo, suonò”.

Questo l’incipit dell’incubo kafkiano.

Ma c’è un’altra cosa, una coincidenza significativa, che rende nella fattispecie il tutto eccezionale.

Il protagonista del romanzo citato e – come dire? – l’artefice della citazione e al tempo stesso anch’egli protagonista della realtà hanno incredibilmente, kafkianamente, lo stesso cognome.

7) Vigevano

Agli appassionati della letteratura, ma pure ai cinefili ( per via del bel film omonimo di Elio Petri in cui Alberto Sordi riversa il suo solito talento ) la cittadina “capozona” della Lomellina non evoca un procuratore, ma un maestro: il Maestro di Vigevano, appunto, il titolo del bel romanzo, di Lucio Mastronardi, degli anni Sessanta.

Sostanzialmente è la storia del maestro di scuola elementare Antonio Mombelli,

convinto dalla moglie a lasciare la scuola per impiantare una fabbrichetta di scarpe che aveva avviato: una decisione che si rivelerà non soltanto sbagliata, ma addirittura perniciosa per tutta la famiglia.

Ma come anche gli altri due romanzi di Lucio Mastronardi (“Il calzolaio di Vigevano” e “Il meridionale di Vigevano” ) è soprattutto la storia della provincia settentrionale, ancora sostanzialmente contadina,  travolta dall’industrializzazione, e dalle trasformazioni dello sviluppo economico degli anni Cinquanta e Sessanta, e irreversibilmente deteriorata dalle logiche dure, ciniche ed egoiste del denaro, inteso quale unico mezzo di promozione personale e gratificazione sociale.

Qui sta la storia sociale di Garlasco.

Il Maestro di Vigevano, infatti, fissa correttamente negli anni dello sviluppo economico e sociale nella provincia italiana i cambiamenti sopravvenuti del comune sentire e nel comune comportarsi, dando poi forma al nuovo mondo così sopravvenuto, sfrenato e irriflessivo, sconvolgente dolorosamente senza scrupoli, coi suoi motivi e coi suoi personaggi.

Di tutti i tanti giornalisti presenti a Garlasco, soltanto uno se ne ricorda. E’ Francesco Battistini, il quale, nel riferire l’interrogatorio affrontato da Alberto Stasi appunto a Vigevano, sede della Procura della Repubblica competente per territorio, così si esprime a proposito del ragazzo, sul “Corriere della sera”:

Il ragazzo sta lì seduto, apatico, gli occhi a terra come un personaggio di Mastronardi (“Lui era nel giusto, siamo noi che sbagliavano”), e aspetta si compia la pratica, che non sarà svelta”.

Il riferimento letterario è a proposito di un morto suicida, esattamente come si suicidò lo stesso Lucio Mastronardi nel 1979, dopo aver scoperto di avere una gravissima malattia:

«Lui era nel giusto, siamo noi che sbagliavamo…», dice un passante, uno di Vigevano.

8) “Non è che siamo in tv, non siamo  a Csi, che in mezzora si sa tutto“

Il riferimento corretto e anzi d’obbligo è per una serie di telefilm americani, una delle tante della così detta “fiction” che infestano la nostra televisione pubblica e privata così malamente degradata, ma più delle altre diventata “cult”, C.S.I.

Si pronuncia “si es ai” ed è la sigla del reparto investigativo che a New York fa i rilievi scientifici direttamente sulla scena del crimine, in Italia sarebbero i Ris dei Carabinieri.

Va in onda in onda giovedì, subito dopo cena, sull’emittente “giovanile” Italia 1, quindi più delle altre, per il target meno preparato e dunque più indifeso, strumento potentissimo di suggestioni, purtroppo negative nei modelli diseducativi che continuamente propone, a cominciare dai “telegiornali”.   

La caratteristica principale è la crudezza delle immagini, che spesso sconfinano nel trucido, nell’orrido, nel repellente, sempre con ampia dovizia di particolari.

Poi, la carica di violenza, la violenza elevata a sistema, che sottende e dunque automaticamente propaga.

Infine, c’è da notare come tutto sia spiegato e analizzato nei dettagli: così, è una buona palestra di esercizio, per chi caduto nel crimine, ma soprattutto per chi si appresti a commetterlo, o ci stia pensando, su come meglio organizzarsi e, attraverso la conoscenza delle tecniche investigative ormai entrate in uso, evitare quegli errori che potrebbero portare a essere scoperti.

Il tutto, da ripetere per sottolineare: all’ora di punta, subito dopo cena.

L’unica differenza con la realtà è i risultati dei test scientifici nei telefilm vengono ottenuti, o quanto meno rivelati, in poco tempo, mentre nella realtà richiedono sempre giorni, o addirittura settimane.

9) Fabrizio Corona

Come detto, ad un certo punto il re del pettegolezzo, il dominatore dei paparazzi, il protagonista mediatico dell’estate 2007 irrompe sulla scena del delitto dell’estate.

In macchina, la sua, dalla vicina Milano, segnalato da tutti i giornalisti televisivi e della carta stampata che da giorni stazionano numerosissimi in pianta stabile a Garlasco.

Come visto, va a proporre “il quarto d’ora di celebrità” alle cugine gemelline, le quali peraltro se l’erano già ritagliato per fatti loro, anzi, come premessa di lassi di tempo maggiori.

Con ciò facendo, allunga i suoi, tempi di celebrità e giacché c’è promuove il libro dal titolo blasfemo sulle sue prigioni e l’ultima raccolta di brani musicali che piacciono a lui, preziosi quanto le sue mutande firmate, tutti prodotti del suo multiforme ingegno multimediale e multilevel marketing.

La proposta pare venga comunque respinta al mittente, anche se a questo proposito le versioni dei protagonisti sono discordanti e se sia stata accettata e taciuta, o semplicemente rimandata in senso temporale, o proprio respinta, questo, non lo possiamo sapere.

Comunque sia, l’esito è del tutto ininfluente ai fini della nostra ricerca.  

Qui invece interessa sottolineare che con l’arrivo di Fabrizio Corona, i disvalori di cui è portavoce ( i guai giudiziari portatori di vantaggi economici ) e i significati allegorici di cui è sovraccarico ( la bella vita lucignola dei soldi facili che sono la misura di tutto; delle discoteche esclusive; delle modelle, delle veline e delle ragazze immagine che si impongono grazie al loro aspetto fisico e alla loro intraprendenza negli ambienti dorati dello spettacolo; della cocaina; delle griffe; dell’omologazione consumistica; del protagonismo, dell’egoismo, della superficialità; delle isole dei famosi, dei grandi fratelli e delle grandi sorelle)  irrompono automaticamente anch’essi nella vicenda dolorosa e anzi tragica del delitto di Chiara Poggi.

Non è più un fatto di cronaca: è diventato anch’esso un reality – show.

10) Il film di Gabriele Muccino “Ricordati di me”

Fabrizio Corona ha spiegato che l’ “ispirazione” di scritturare le “gemelline” gli è venuta dal film di Gabriele Muccino “Ricordati di me” con queste parole:

Ognuno può essere portato per il mondo dello spettacolo, basta trovare i famosi cinque minuti di notorietà di cui parlava Andy Warhol. 10 A )

Paola e Stefania possono rappresentare, almeno per finta, almeno nell’immaginario collettivo, la diciassettenne interpretata nel film da Nicoletta Romanoff. Una ragazza che sogna di fare la velina e sfondare nel mondo dorato della tv” .

L’intuizione è corretta.

Anzi, una scena di questo film può essere evidenziata come l’icastica rappresentazione di un intero fenomeno sociale generazionale che dilaga.

E’ quando Valentina Ristuccia, interpretata da Nicoletta Romanoff, dopo essere riuscita ad ottenere di comparire in un programma televisivo, corre a perdifiato verso casa, per poter annunciare ai suoi la realizzazione del suo sogno, ebbra di felicità.

Ecco, così insomma fare la velina, la valletta televisiva, anche la semplice comparsa, entrare in un qualche modo nel mondo che appare dorato, rutilante e agiato dello spettacolo, soltanto in virtù del proprio aspetto fisico, è diventata l’aspirazione, la realizzazione stessa di vita, per tantissime ragazze, specie nelle fasce di età più tenere.

L’ essere riconosciuti e riconoscibili diventa quindi l’ obiettivo primario dell’agire, obiettivo davanti al quale anche antichi, consolidati valori scompaiono irresistibilmente.

Per il resto, “Ricordati di me” è un bel film, un riuscito ritratto della famiglia media italiana contemporanea, che nel 2003 conferma così il suo autore, già fattosi notare con  il precedente “Ultimo bacio”, quale certezza nel panorama del cinema italiano del nuovo millennio.

E’ la storia di due genitori che volevano fare rispettivamente lo scrittore e l’attrice e che invece si ritrovano a correre dietro ai loro due figli e ai loro problemi.

In particolare è Valentina, col suo chiodo fisso di entrare nel mondo dello spettacolo, ricorrendo a tutti i mezzi, che manda ancora più in crisi il menage famigliare, compreso il fratellino Paolo.

In un mondo che vede le madri spesso più fanatiche delle figlie e riversare su di loro le proprie aspirazioni frustrate, invogliandole a perseguire in tutti i modi il traguardo dell’apparire, anche senza saper fare niente, il film diventa poi, anche più di quanto il regista in realtà voleva, un impietoso ritratto sociale dell’Italia del nuovo secolo e del nuovo millennio.

10 A) La frase di Andy Warhol sulla notorietà

La citazione è corretta.

Andy Warhol, pittore americano, l’esponente più famoso della così detta “pop art”,

diceva che “chiunque può essere famoso per quindici minuti”.  

L’affermazione è indicativa della tendenza imposta, soprattutto negli ultimi anni, dai mezzi di comunicazione di massa.

Nasconde però sottaciuta un’altra verità: il quarto d’ora di celebrità è creato dai media stessi, che in maniera spesso del tutto falsa e inconsistente, magari anche in presenza di indicazioni chiaramente negative, elevano a celebrità una semplice apparizione, qualcuno o qualcuna che non ha altro titolo, o merito, se non quello di trovarsi in un certo posto in un determinato momento.

Il personaggio così creato sarà dato in pasto alla curiosità morbosa del pubblico, usato per attirare l’attenzione e generare audience da sfruttare a fini promozionali e commerciali, per poi quasi sempre essere altrettanto rapidamente fatto cadere e dimenticare.   

CAPITOLI SUCCESSIVI

A –  Lo scempio delle televisioni

(2 ottobre 2007)

Era facilmente prevedibile, di per sé, il fenomeno correlato, ma ne era difficilmente prevedibile una tale intensità.

A metà settembre, dopo che per caso, in mezzo a tanti altri fatti più o meno analoghi, l’assassinio di Chiara Poggi era stato “pompato” a dismisura da quotidiani e settimanali della carta stampata per un mese intero, se ne sono impossessate le reti televisivi, pubbliche e private.

Svegliatesi dal lungo letargo estivo in cui cadono d’estate, le televisioni, che fino a quel momento avevano giocoforza seguito il caso solamente attraverso i servizi dei telegiornali, se ne sono violentemente impossessate con i propri programmi così detti “talk show”, di parole in libertà che diventano spettacolo e spettacolo fan tutto diventare, anche il dolore e la tragedia.

Approfittando anche delle contemporanee vicessitudini delle indagini – quelle vere – giudiziarie, per cui Alberto Stasi è finito in carcere per alcuni giorni, salvo poi essere rimesso in libertà da un altro magistrato, che ha ritenuto insufficienti, o inconsistenti, non è dato sapere al momento, le prove, o indizi che dir si voglia raccolte a carico dell’indagato dagli inquirenti, hanno dilatato il caso a dismisura, l’hanno spettacolarizzato anche per eccesso, l’hanno sfracellato fino all’ultimo brandello possibile e immaginabile, ne han fatto scempio, ne han fatto strame.

Come a Cogne, ma peggio a Garlasco, hanno celebrato i processi, pur negando di volerlo fare, seguendo il logoro copione di alcuni compari di chiacchierata colpevolisti e gli altri innocentisti, per cui ognuno dice la sua, su quel poco che sa, o finge di sapere e alla fine non solo la verità cercata continua a latitare, ma si allontana: poi, se ne sa sempre meno di prima, non si conclude mai nulla, alla fine resta sempre soltanto una confusione maggiore. Oltre che, certo, l’audience, cui si è sacrificato ogni pudore, da immolare alla pubblicità, al successo, al denaro.

Come a Cogne, ma peggio a Garlasco, abbiamo rivisto il plastico della casa, le piantine sulla dislocazione di impronte, masserizie e suppellettili, le foto delle macchie di sangue sulla scena del crimine.

Il più abile, in questa finzione di spettacolo mascherato da informazione, andata in onda su ogni dove, Enrico Mentana: spara parole a mitraglia, dice sempre di voler far le domande che farebbe la gente da casa, riesce nell’impossibile di condannare in teroria ciò che fa esattamente e contemporaneamente in pratica: infatti, in realtà anch’egli, appena un tantino di abilità e dunque di ipocrisia in più, fa i processi mediatici e fa i teatrini televisivi, cui ha acquisito, strappata al diretto, maggior concorrente, la Barbara Palombelli.

Sì, lui.

Bruno Vespa.

Si era fregato le mani in anticipo, in pubbliche dichiarazioni: Garlasco, poi ancora Garlasco e nient’altro che Garlasco. 

Il risultato alla fine, in una grottesca puntata di Porta a Porta, è stato devastante.

Come a Cogne, ma peggio a Garlasco, c’era una bicicletta, in luogo dei sandali, in luogo del cucchiaio.

Ma, a parte qualche timida new entry, non ci posso credere, c’erano sempre gli stessi teatranti, trascinatisi immarcescibili da Novi Ligure, a Cogne, da Parma a Garlasco: il maglioncino colorato dello psichiatra Paolo Crepet, la barba lunga del criminologo Francesco Bruno, le gambe accavallate della giudice del tribunale dei minori di Roma (l’abbiamo imparato a memoria! ma, come direbbe qualcuno, appunto: che c’azzecca? ) Simonetta Matone.

Mancava soltanto l’avvocato Carlo Taormina.

Ma siccome al peggio non c’è mai fine, coraggio, lo sappiamo già: è soltanto questione di tempo, in un modo o nell’altro arriverà a Garlasco anche lui.

B –  Lo scempio dei giornali

(12 novembre 2007)

Sul fronte delle indagini non si sono registrate novità decisive.

A dire il vero, sia pur con una periodicità di giorno in giorno sempre minore, i giornali hanno dato sinteticamente conto in questo periodo dei risultati delle analisi scientifiche, nel frattempo acquisiti, rilevando che, sia per l’orario del decesso, sia per le impronte rilevate, essi inchioderebbero l’”unico indagato”, Alberto Stasi.

Al che, come sempre più spesso succede ormai, per quanto attiene  all’amministrazione della giustizia, la gente non capisce, trovandosi di fronte a decisioni, comunque a fatti, fuori dal senso comune, in stridente contrasto con le logiche più elementari.

Come di nuovo in questo caso: se ci sono le prove della sua colpevolezza, perché Alberto Stasi non viene arrestato e rinviato a giudizio? E se non ci sono, perché continua ad essere l’unico indagato e non si indaga altrove?

Nel frattempo, l’attenzione dei mass-media sul caso dell’omicidio di Chiara Poggi a Garlasco, anche per la mancanza di novità decisive, è andato progressivamente scemando.

I teatrini televisivi di Vespa e Mentana hanno trovato nel caso delll’assassinio a Perugia di una studentessa  inglese, Meredith Kercher, i nuovi personaggi da rappresentare.

Sui giornali, soltanto brevi e retoriche note di aggiornamento sui risultati delle analisi scientifiche, di cui abbiamo detto.

Ma c’è stato un periodo, per fortuna breve, subito dopo lo “scempio” delle televisioni, in cui anche i giornali, evidentemente trascinati al ribasso, hanno dato il peggio di sé.

I quotidiani.

Uno, in  particolare: “Libero”.

Con la presunta giustificazione che sarebbero state testimonianze a favore dell’innocenza di Alberto Stasi, a proposito della mancanza di tracce ematiche sulle sue scarpe, ha pubblicato numerose foto della scena del crimine, con una tale esposizione di sangue, da fare invidia al Quentin Tarantino di “Pulp fiction”.

Ma questo è una finzione, appunto, soltanto un film; la morte della povera Chiara Poggi, invece, una tragica realtà, di cui, mostrandone i particolari più crudi e raccapriccianti, senza il minimo di quella “pietas” che dovrebbe assistere tutti in simili circostanze, non si è avuto alcun rispetto.

Poi, anche altri – e sorprende trovare “Repubblica”  – sono scivolati nel cattivo gusto e sono caduti nella pornografia, nel momento in cui hanno pubblicato ampi stralci degli interrogatori degli inquirenti a Carlo Stasi, in particolare quelli contenenti particolari scabrosi che in sede giudiziaria avevano un senso, mentre buttati in pasto senza motivo alla curiosità più becera del pubblico suscitano sconcerto e, in chi ne è ancora capace, indignazione.

Le abitudini sociali e sessuali dei due fidanzati. Le loro espressioni sentimentali. I testi dei messaggini che si mandavano. Finanche l’eventuale presenza delle  mestruazioni di Chiara.

Una prova che al peggio non c’è mai fine, nello smarrimento del rispetto, nella corsa impazzita verso il trash sempre più puzzolente e orripilante.

Tout court, una vergogna.

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Category: Costume e società, Cronaca, Cultura

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