RECENSIONE DISCOGRAFICA MULTIPLA: STEFANO GIACCONE, VALERIO ZECCHINI, FIESTA ALBA, EDO AVI, PALE BLUE DOT

| 15 Giugno 2025 | 0 Comments

di Roberto Molle __________

Ci sono dischi che a doverne parlare mi mettono in difficoltà, o perché sono troppo belli e complicati e ne ho rimandato troppo a lungo il confronto, o perché apparentemente distanti dalla mia sfera emozionale, o forse, perché fatico ad acquisirne i codici di accesso.

Sono tutte opere di musicisti che stimo, che conosco più o meno approfonditamente, e che, in diversi periodi hanno contribuito a migliorarmi la vita con la loro musica.

Si tratta di pubblicazioni più o meno recenti, cd confinati nell’angolo a destra della scrivania, dove aspettano solo di essere inseriti nel lettore e sprigionare suoni, parole, emozioni.

Oggi ho deciso di affrontarli un po’ tutti insieme invece di rifuggire dalla situazione.

Fuori i trenta gradi di un periodo che si annuncia infuocato tenuto in scacco dall’anticiclone africano, dentro il fresco irreale del condizionatore e una lunga lista di ascolti. In tutto ciò si confondono le canzoni, le atmosfere, i flash-back collegati a esperienze disseminate nel tempo.

Stefano Giaccone – “L’affondamento di Torino” (pubblicato nel novembre del 2024). Stefano è un mito che per me resiste nel tempo. Una specie di coscienza arroccata dentro la mia coscienza, sin dai tempi dei Franti, gruppo hardcore-folk (e mille altre cose) che per tutta la durata della sua esistenza ha sostenuto l’idea di indipendenza totale dalle logiche dei canali classici del mercato discografico.

Cantautore immenso, dalla creatività multiforme, declinata (dopo i Franti) in seno ad altre esperienze artistiche (Environs, Orsi Lucille, Howt Castle, La banda di Tirofisso). Qualche anno fa raccolse il mio invito a scrivere una canzone per il progetto “Il delicato mondo di Nick Dracke” regalandomi “Fun Fair”, finita nella compilation allegata al libro. Nato a Los Angeles, Stefano vive fra Torino e la Sardegna.

“L’affondamento di Torino” è l’ultimo di una lunga serie di album solistici pubblicati tra un progetto e l’altro. Tra le sue pieghe c’è profumo di vita reale, respiro di quotidianità e resistenza intesa come capacità di vivere e lottare. Solo otto canzoni costruite dentro un perimetro di strumenti (voce, chitarra e sax) che si fa ossatura indolente e malinconica, capace di tratteggiare cambiamenti e trasformazioni di un luogo che non smette di sorprendere. Pensato e creato in un paesino sperduto della Sardegna, “L’affondamento di Torino” vive anche delle esperienze dirette avute da Stefano con i musicisti del territorio sardo. Apolide o appartenente a più mondi, anglosassone con forte sentimento sociale, cantautore di culture subalterne, musicista eternamente scollegato da ogni logica di mercato, Stefano giaccone mi rimane uno splendido mistero.

Post Contemporary Corporation – “Patriottismo Psichedelico” (pubblicato nel gennaio 2024). Si provi a pensare a un alieno che s’insinua nella stanza nel cuore della notte mentre la luce della luna filtra, disegnandone la sagoma informe. Proprio quando un urlo di terrore sta per uscire dalla gola, le sue parole liberate come litanie dolciastre aiutano a distendere le tempie e rilassare i nervi. Questa è l’immagine istantanea che ho avuto la prima volta che ho ascoltato Valerio Zecchini in una sua lirica, avvolgente, urticante performance.

Provocatore, polemista, poeta, attore, intellettuale, agitatore, Valerio è un vulcano in eruzione che travolge e avvolge dentro cantici soavi e affabulatori.

“Patriottismo psichedelico” è una sorta di poema inscindibile dal suo autore, potente e identitario. Impossibile non rimanere invischiati tra le sue malie, anche quando in apertura richiama i versi di un altro “veggente del lessico” come Dino Campana:

Numerose le studentesse sotto i portici / si vede subito che siamo in un centro di cultura, / Guardano a volte con l’ingenuità di Ofelia / tre a tre, / parlando a fior di labbra”.

Valerio Zecchini ha la prorompenza di uno sciamano che rema controvento nelle metropoli: “Come rimpiango la solitudine mistica della vita nei grattacieli”, ha pietre enormi da gettare nello stagno del qualunquismo: “Voi, a cui nessuno ha mai dato nulla. / Voi, che trascinate le vostre misere esistenze / coperti di cenci / coi corpi piagati / e col dolore che ulula nei vostri petti / volgo putrescente / ignobile plebaglia flautolente…”.

Un disco, un concept, un breviario d’assalto, una piece teatrale, tutto questo e molto altro. Un coinvolgimento emotivo totale che trasporta dentro altri mondi, forse distopici e frammentati ma vividi come l’ardimento di Valerio in questo nuovo capitolo di Post Cotemporary Corporation, da ascoltare tutto d’un fiato, in cuffie e nella penombra per non perdersi nemmeno un frammento. Nota di merito ai musicisti che lo hanno supportato in maniera eccelsa: Luca Oleastri, Antonello Manzo, Roberto Passuti e Giulio Sangirardi, Dario Parisini, Carlo Marrone.

Fiesta alba – Pyrotechinc Babel (pubblicato nel marzo 2025). Mi hanno sempre affascinato le band con i musicisti dal volto nascosto, dai Residents ai Tre Allegri Ragazzi Morti, dagli Slipknot ai Misfits, fino alle altre decine di gruppi un po’ in tutto il mondo. I Fiesta Alba sono un altro gruppo che si diverte a mascherarsi e a fare musica molto interessante. Partendo dalla concezione algebrica del math-rock sviluppano canzoni che si fondono a mille altri generi: dal prog al jazz, dal drum’n’ bass fino al loop-tronic. Pyrotechinc Babel è un crocevia di suoni e voci che attingono a diverse lingue.

I Fiesta Alba sono tre musicisti in incognito, dietro le loro maschere bizzarre si nascondono brillanti manipolatori di suoni. La loro musica è un mosaico sonoro stratificato: le influenze si sovrappongono e s’intrecciano, generando un’energia cinetica, un’esplosione di colori, una vera e propria babele pirotecnica. Il rimando al caos è delegato all’intreccio di voci provenienti dal Giappone, dalla Mitteleuropa, dall’Africa e dall’Italia, Il tutto shakerato dalle sonorità oblique della band.

Edo Avi – “Fammi Male” (pubblic. Aprile 2025). Ho conosciuto Edo(ardo) Avi un po’ di anni fa lungo la rotta che da Gemini conduce a Bolzano, fino ai luoghi che sono stati di Alexander Langer. Edo è un musicista che mette nella musica tutta la sua materia esistenziale e umana, con la grande capacità di toccarti nel profondo. A prescindere che lo apprezzerei già solo per il fatto di aver scritto “Come un fiume”, una tra le più belle canzoni degli ultimi anni del panorama italiano, lo inserisco di diritto tra i songwriter che hanno saputo coniugare nel tempo vecchie pulsioni post-punk new wave a un respiro pop-rock capace di farsi trasversale negli apprezzamenti dei fan. Già con i Chain (di cui si è detto in passate recensioni qui a leccecronaca.it il 3/11/18 e il 18/10/2023) e più diffusamente con la pubblicazione di album in solo, Edo Avi si è costruito un suono personale che è diventato un suo marchio identitario, ha allestito un home-studio e ha interagito con musicisti e produttori italiani e statunitensi.

Fammi Male” è la summa di un lavoro calibrato sui precedenti album e riallineato su frequenze più radiofoniche. Tutto l’album respira di afflati e citazioni, mediato dalla voce carismatica di Edo. È il rimando alla delicata “Under the milkyway” degli australiani Church che mi rapisce mentre mi avvolgono le note dell’intro “Perdonami”, il drumming di “Fino a perdersi” accompagna una ballata che va a frangersi nel vento con un refrain che fa venire i brividi. Il falsetto iniziale di “Narciso” vira brevemente verso sonorità rock delicate ed evocative con chitarre che s’impennano e trascinano. La title-track “Fammi male” si sporca di un riff di chitarra più pulsante e orecchiabile fermandosi in limine di un baratro glam. Poi ancora brani di cristallina bellezza già pubblicati nel suo “The best of” del 2023: “Ti troverò”, “Pensami”, “Più di quello che c’è”. A suggello di un album piacevolissimo, “Senza di lei” un brano che mi ha conquistato proiettandomi in certi assolati territori dell’Indiana dove un attempato John Mellemcamp, dentro immagini seppiate, si destreggia con una delle sue canzoni più iconiche: “Human Wheels”.

Pale Blue Dot – (h)eart(h) (pubblicato questo mese). La storia degli Staré Město, band di Ferrara nata e morta nello spazio impercettibile di un battito d’ali (dato i tempi veloci del rock) per me è stato un grande trauma. Un unico bellissimo album (“Punto di fuga”) e niente più, con i musicisti che sciolgono il gruppo e si cimentano con altre esperienze musicali. Con almeno un paio di loro sono restato in contatto, seguendoli nelle loro nuove evoluzioni. Li ho ritrovati nei Pale Blue Dot con un nuovo disco e tanta voglia di suonare. Enrico Bongiovanni che negli Staré Město oltre a suonare la chitarra cantava, nella nuova realtà è impegnato solo alla sei corde. Tommaso Lampronti al contrario, suonava solo la chitarra e nei Pale Bule Dot canta e suona anche il synth. Insieme a loro Cosimo Tanzarella basso e synth, Francesco D’Astore batteria.

Pale Blue Dot – (h)eart(h) arriva come un macigno, gravido di pioggia, plumbeo, crepuscolare. Arriva e mi salva dal caldo torrido che preme da fuori per entrare. Salvifiche canzoni, una via l’altra senza soluzione di continuità. Lo shoegaze si libera nell’aria, rilascia spore microscopiche di psichedelia a purificare l’ambiente. Il suono degli strumenti si sovrappone, la voce s’impasta facendosi un tutt’uno, è come dentro un disco sognante prodotto da Steve Lillywhite in un’epoca distopica. Sono gli amati Chameleons, i frugali Opposition, i ricercati The Fall che non ci stanno a essere marchiati semplicemente come band anni ’80 e vogliono riemergere attraverso sensibilità più fresche e avvolgenti.

I Pale Blue Dot come carta moschicida hanno attratto sonorità lungo l’arco di un ventennio (gli ottanta e i novanta del secolo scorso) e anche più giù, fino agli inferi del post-punk dove immortali fantasmi si materializzano tra i suoni e le voci delle loro canzoni e hanno volti amici e nomi che restano scolpiti nella memoria per sempre: Echo & Bunnymen, The Church, Comsat Angels, Cocteau Twins, Teardrop Explodes.

Category: Cultura

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