RISCOPERTE / LA STRAORDINARIA ATTUALITA’ DI JUNG. LO AMIAMO TANTO PERCHE’ CI INSEGNA A NON ACCONTENTARCI: DALLA SANTIFICAZIONE MEDIATICA, ALLA PSICOLOGIA DELL’ INDIVIDUAZIONE

| 16 Ottobre 2017 | 0 Comments

di Eliana Forcignanò______

Nella temperie attuale assistiamo a un’autentica “rinascenza junghiana”. Intendendo significare, con questa locuzione, il rinnovato interesse per il pensiero e la psicologia di Carl Gustav Jung: fioriscono, in nome del fondatore della psicologia analitica, pubblicazioni e convegni; si anima l’interesse dell’opinione pubblica al punto che Jung, più di Freud, diviene un autore “social” con derive stregonesche e New Age davvero intollerabili.

In breve, si tende a ricorrere a Jung come alla panacea di tutti i mali, a collocarlo nel profilo archetipico del “Vecchio Saggio”. Ipse dixit. Le sue parole, sovente, sono decontestualizzate e assunte in quanto dogmi, la sua psicologia è stravolta in un desiderio onnivoro di attualizzazione che ben poco spazio lascia alla riflessione rigorosa e scientifica.

Eppure il nostro autore non può essere confezionato in una comode formule o sorbito in pillole: in breve, come nessuno si sognerebbe mai di speculare sulla filosofia di Hegel senza conoscere almeno la Fenomenologia dello spirito, analogamente è una presunzione citare Jung senza averlo letto e, auspicabilmente, in lingua originale.

Si potrebbe obiettare che questo è mero purismo; che non ha alcuna importanza, in fondo, sapere che cosa abbia veramente detto Jung, purché ciò che riusciamo a comprenderne ci sia di aiuto per affrontare la nostra quotidianità; che ogni pensiero appartiene a chi è in grado di appropriarsene.

Può darsi che questo punto di vista sia accettabile, tuttavia nasconde il pericolo di tramutare Jung – e qualsiasi altro pensatore incorra in questo processo di posticcia santificazione – in una reliquia da venerare piuttosto che in un autore da conoscere.

In breve, venerando Jung si archivia il problema di interrogarsi sull’opportunità di cotanta venerazione e, di norma, ogni studioso sa che essa non reca mai vantaggio al libero pensiero. Se provassimo, invece, a porci un altro interrogativo – ossia che cosa abbia ancora da dire Jung al nostro tempo – saremmo più onesti con noi stessi e, probabilmente, indagando sulla sua psicologia, anche da semplici curiosi e appassionati, scopriremmo di più su noi stessi.

In questo viaggio nel pensiero junghiano non siamo soli: interpreti di fama internazionale hanno contribuito a enucleare e a chiarire i temi fondamentali della psicologia junghiana. Basti pensare, in Italia, a Mario Trevi, Luigi Zoja, Luigi Aversa, Aldo Carotenuto e, oltralpe, a Gerhard Adler, Jolande Jacobi, l’allieva prediletta Marie-Louise Von Franz, Liliane Frey-Rohn e, oltreoceano, James Hillman e Sonu Shamdasani, per limitarci a qualche nome. Con questa bibliografia davvero breve e parziale, non si vuole insinuare che i testi di Jung non debbano esser letti e che ci si debba limitare a introduzioni, commenti e manuali, poiché la questione è un’altra: evitare slogan nazionalpopolari e grossolani fraintendimenti.

Se è vero che leggere e interpretare un autore significa anche “tradirlo”, a meno che non si voglia essere investiti nel ruolo di pedissequi ripetitori, tuttavia il tradimento si dipana a partire da una conoscenza del pensiero e, in questo caso, della psicologia dell’autore stesso. Il “pressappoco” non è un tradimento proficuo sul piano ermeneutico, bensì semplice ignoranza.

È innegabile che Jung, più di Freud, piaccia alla gente per il suo modo di ammiccare all’uomo, di comprenderne il disorientamento e di esprimerlo icasticamente in quelle frasi, leggermente ritoccate, in cui c’imbattiamo scorrendo i social network o le riviste, ma dovremmo chiederci che cosa calamita la nostra attenzione verso di lui.

È evidente che Jung ha compreso e interpretato un’aspirazione che appartiene all’uomo da sempre: quella a individuarsi e a esprimersi nella propria totalità. Il percorso individuativo – che, in filosofia, si traduce con il “diventa ciò che sei” attribuito a Nietzsche e, in realtà, mutuato dal poeta greco Pindaro – non è certo semplice, poiché prevede che l’uomo e la donna ripercorrano le tappe di un’evoluzione durata millenni per ritrovare se stessi.

In breve, l’individuazione è bifronte, poiché, da un lato, guarda al futuro; dall’altro si rivolge al passato, ma non solo e non tanto al nostro immediato passato popolato di complessi edipici e fantasie sessuali represse, bensì al passato dell’intera umanità che è racchiuso negli archetipi, ossa in quelle tendenze di pensiero e di comportamento in cui tutti noi ci riconosciamo e che costituiscono quell’ istanza denominata inconscio collettivo.

Esemplificando, si potrebbe dire che quando, nella vita, ci si ritrova di fronte a una difficoltà, l’immagine archetipica che si costella – ossia si attiva – è quella del “guado”: come le popolazioni primitive raccoglievano tutte le loro forze e la loro energia prima di guadare un fiume, analogamente ci raccogliamo in noi stessi prima di affrontare una prova importante della nostra esistenza.

Jung chiamerebbe questo raccogliersi in sé “introversione” e, sovente, l’introversione è connessa con la “regressione”, ossia con il costellarsi – o riattivarsi – di determinati archetipi.

Oggi ricorriamo ai termini “introversione” e “regressione” con leggerezza, travisandone talvolta il senso: il timido è “introverso” e un uomo o una donna con atteggiamenti infantili è in preda a una regressione, ma, nel linguaggio junghiano, l’introversione e la regressione non equivalgono a timidezza e ritorno all’infanzia, bensì a un processo di richiamo dell’energia psichica che, una volta raccolta, procura in noi una trasformazione e ci pone nella condizione di progredire verso l’adattamento, ossia verso un equilibrio dinamico che è, nel medesimo tempo, interiore ed esteriore.

Il mancato adattamento procura nevrosi, ossia una disfunzione che arresta la nostra evoluzione psichica, ma è opportuno ribadire che l’adattamento, per Jung, non significa omologazione. Non è omologandomi alla massa che troverò il mio equilibrio interiore, benché, talvolta, io sia costretta a stabilire dei compromessi per andare avanti, tuttavia se sono acquiescente nei confronti di valori che non condivido, se sono costretta ad accettare un lavoro che non amo, se la mia vita si struttura soltanto sulla base di imposizioni che provengono dall’esterno, potrò dire addio all’equilibrio psichico. Nell’ottica di Jung la massa non esiste e ogni cambiamento si compie dapprima all’interno del singolo e, soltanto dopo, si riverbera sulla società.

Ecco il motivo per il quale, tradotto in estrema sintesi, amiamo Jung: perché c’insegna a non accontentarci, perché la carica eversiva del suo pensiero traspare anche da quelle poche frasi storpiate che troviamo sui social network. Perché, forse, non si è ancora spenta l’aspirazione di ognuno di noi a divenire ciò che è, nell’ oscura consapevolezza che il divenire è cambiamento e che ogni cambiamento prende le mosse da una goccia per dar vita a un mare intero.

Category: Costume e società, Cultura

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