IL ROMANZO CRIMINALE SALENTINO /  L’APPROFONDIMENTO

| 3 Ottobre 2022 | 0 Comments

/ UNA SACRA CORONA UNITA ANCORA OGGI “TENEBROSA”. MA MODERNIZZATA. C’E’ ADESSO UNA “BORGHESIA MAFIOSA”, CAPACE DI ALTERARE LA COMPETIZONE POLITICA MEDIANTE IL VOTO DI SCAMBIO, PONENDOSI ESSA STESSA COME SOGGETTO POLITICO

di Dario Fiorentino ______

L’ultima relazione semestrale della Direzione Investigativa Antimafia relativa al secondo semestre 2021 evidenzia e descrive alcune tendenze riguardo alla situazione mafiosa in Salento che presentano i caratteri della regolarità e della progressività nei confronti delle analisi svolte nelle relazioni degli ultimi anni.

Ma, tra le righe, tali relazioni offrono ad una osservazione più profonda la possibilità di cogliere un paradosso che è implicito nello stesso problema mafioso, al di là dei luoghi comuni e degli stereotipi attraverso i quali quest’ultimo viene trattato mediaticamente e produce opinione.

La realtà salentina, dal punto di vista della presenza sul territorio di organizzazioni di tipo mafioso, è dipinta ormai da molti anni come una realtà estremamente frammentata dal punto di vista strutturale, variegata, mutevole e policromatica; priva di un vertice, composta da numerose compagini che, in uno stato di “quiete” sempre più prolungato, interrotto sporadicamente da episodici vuoti di potere che conducono alla recrudescenza di determinati atti di violenza o dall’azione di batterie isolate composte generalmente da “nuove leve” desiderose di mettersi in mostra innanzi agli esponenti storici dei clan salentini, consolidano la propria stabilità interna differenziandosi dai modelli storici di partenza offerti dalla Camorra e dalla ‘Ndrangheta, confermandosi gruppi criminali a-tipici.

Si tratta di una stabilizzazione e di una differenziazione che dipendono da vari fattori, tra i quali quelli che hanno finito poi col generare il paradosso cui abbiamo accennato.

Mafia anomala quella salentina, surrogato del fallimento del progetto pan-regionale di inizio anni Ottanta, il quale prefigurava una sola organizzazione criminale in grado di controllare l’intera regione prima di frantumarsi sulle differenze storico-culturali e geografiche di un territorio che, non a caso, fino alla prima metà del XX secolo era nominato con un toponimo declinato al plurale -le Puglie; mafia anomala, ma non meno capace di imporre il proprio controllo territoriale attraverso la combinazione di tecniche arcaiche dall’alto rendimento simbolico, come i riti di affiliazione e i metodi violenti di risoluzione di contrasti interni ed esterni, e di modalità operative sempre al passo coi tempi che hanno consentito ai gruppi criminali di controllare i mercati illeciti tradizionali – traffico di stupefacenti, racket delle estorsioni, contrabbando di tabacchi lavorati esteri, usura- e di crearne o infiltrarne di nuovi.

Una mafia che ormai di rado si manifesta in dimostrazioni spettacolari di violenza, ma che, al contrario, ha imparato anch’essa ad agire sottotraccia, in maniera più subdola e insidiosa, mantenendo un basso profilo, ma coltivando “progetti” di medio-lungo periodo.

Da un lato per merito dell’attività preventiva e repressiva di Magistratura e Forze dell’ordine, secondo le relazioni informative della DIA, attività che negli anni ha fortemente ridimensionato se non in alcuni casi azzerato il potenziale criminale della maggior parte delle compagini mafiose operanti nella provincia di Lecce e di Brindisi sotto la celebre sigla di Sacra Corona Unita, con alcune propagazioni fino al territorio provinciale tarantino, nello specifico a Manduria; ma dall’altro a causa del paradosso che ci preme evidenziare: l’ultima relazione della Direzione Investigativa Antimafia afferma che i modelli organizzativi esistenti attualmente, “in cui coesistono profili legati alla tradizione delle mafie storiche con elaborazioni delinquenziali originali e autoctone ispirate ad un pragmatismo utilitaristico per il quale il fatto mafioso è solo il mezzo e non il fine dell’agire criminale”, siano oramai funzionali alla proliferazione di quella mafia soprannominata “del click”, ovvero di una mafia che, unitamente alle fonti illecite di accumulazione del denaro, sposta quest’ultimo, lo investe in attività lecite, lo scambia, lo occulta con un colpo di mouse. Una mafia “moderna”.

Una mafia, quella salentina che era già nata moderna, artificiale, d’importazione, votata all’impresa economica, saltando le fasi pre-mafiosa, agricola e urbanistica, quelle che insomma hanno contraddistinto il substrato culturale di altre regioni meridionali intaccate dalla problematica della criminalità organizzata, che ha “mafiosizzato” territori e forme criminali tradizionali, non mafiosi, ma evidentemente predisposti, a dispetto del mito di quarant’anni fa della “Puglia felix”, che interpretava il fenomeno mafioso nostrano alla stregua di un cancro che si propaga in un organismo sano, quando invece non lo era, dato che già la camorra, Cosa Nostra siciliana e le ‘ndrine calabresi operavano sul territorio facendo saggiare ai “locali” le tecniche e le strategie dell’impresa mafiosa, immediatamente assimilate. E in ciò risiede il paradosso: com’è possibile rinforzare ciò che si combatte? Paradosso antico, bene inteso, per cui il Salento non fa eccezione.

Com’è stato possibile che i gruppi siano stati repressi dalle istituzioni fino al ridimensionamento drastico del fenomeno criminale, offrendo però, simultaneamente, nelle relazioni della DIA, uno spaccato della zona nel quale i clan si sono finanche internazionalizzati nel riciclaggio del denaro proveniente dai traffici illeciti e dal racket, si sono specializzati nell’infiltrazione nei gangli dell’amministrazione pubblica e della politica, acquisendo anche competenze nell’intercettare sovvenzioni europee, approfittando delle falle della normativa comunitaria?

Sembrerebbe oramai impossibile leggere il fenomeno mafioso nel suo rapporto col contesto sociale di riferimento nell’ottica della separatezza: ogniqualvolta si tratta il problema della mafia nelle sue connessioni e articolazioni con il contesto sociale, dall’economia alla politica, si utilizza la lente ottica del “collegamento”, oscuro o eclatante, magari parziale, ma sempre considerato innaturale tra mondi diversi e irriducibili. Ed è per questo che allora si dice “mafia e politica”, “mafia ed economia”, “mafia e potere”, come se nella congiunzione esistesse un ponte tra universi che non dovrebbero conoscersi né tanto meno comunicare.

L’ottica fornita dagli arnesi analitici della separatezza-infiltrazione non spiega come sia possibile smantellare i clan, ma poi ogni anno descrivere come organizzino e riorganizzino i propri traffici illeciti per colonizzare i mercati legali e far fruttare i propri mezzi di sostentamento, fino a diventare, in alcune zone del Salento, un vero e proprio ufficio di collocamento con funzione giurisdizionale, dal momento che il clan mafioso è chiamato a dirimere controversie lavorative, organizzare l’assunzione di lavoratori, controllare la gestione dei servizi cimiteriali, l’aggiudicazione degli appalti pubblici, l’apertura e la direzione di nuove attività commerciali legate alla fornitura di gas ed energia elettrica; tutto ciò accadeva in alcuni comuni del basso Salento, ove si utilizzava anche la locale squadra di calcio per ottenere e canalizzare sovvenzioni pubbliche e private e rinforzare il controllo sociale, rinsaldando i legami con la popolazione, siano questi di cooptazione oppure di intimidazione.

Anche la semantica della “infiltrazione” contribuisce a mantenere misteriosi i motivi per cui la presenza mafiosa aumenta e si intensifica nei propri rapporti con le amministrazioni pubbliche – si guardi al numero di comuni sciolti in seguito all’avvio della procedura di accesso da parte delle Prefetture di Lecce, Brindisi e Taranto negli ultimi cinque anni- fino a toccare il record nazionale di atti intimidatori nei confronti di pubblici amministratori; ma a fronte di amministratori intimiditi ne devono esistere altrettanti “infedeli” se i gruppi mafiosi sono riusciti a insinuarsi nei congegni burocratici di stanziamento di fondi europei e aumentano le speculazioni nei settori economici del trattamento dei rifiuti, della sanità, della sanificazione ambientale, dei mercati delle scommesse on-line e delle video-lotterie, oltre all’inserimento in pianta stabile nei mercati ittici, nel commercio di autoveicoli, in quello della somministrazione di alimenti, di bevande, nel commercio di carburante e altri prodotti petroliferi, di componentistica informatica, nella gestione di autorimesse e parcheggi, oltre che nell’edilizia e nei settori dello scavo e della sistemazione dei terreni, per finire al comparto agricolo, alla stampa di arti grafiche e serigrafia, al marketing e alla fornitura di servizi telematici.

Si parla dunque di una nuova “borghesia mafiosa”, capace di alterare la competizione politica mediante il voto di scambio elettorale, ponendosi essa stessa come vero e proprio soggetto politico, con una specificità sorprendente se si guarda oltre gli stereotipi: come quello che vorrebbe la mafia svilupparsi a causa dell’assenza dello Stato, quando invece essa prolifera e si modernizza grazie al fatto di avere le istituzioni statali a “portata di mano” dove, maggiore è il flusso normativo e regolatore della cosa pubblica e più alte sono le possibilità di individuare i buchi neri che permettono di aggirare la legge o di utilizzarla a proprio vantaggio. Inutile lamentarsi poi dell’illegalità diffusa che dilaga nelle periferie del sud quando certe forme di devianza degli individui che dovrebbero garantire la fiducia e il rispetto del patto istituzionale consistono “nell’arte” di saper rendere le leggi irrilevanti, a causa delle loro stesse posizioni organizzative. È senza dubbio un problema sistemico, non antropologico.

Un problema che vale anche nel caso di un altro stereotipo che vorrebbe la mafia una sorta di parassita dei contesti sociali arretrati e poveri; non è arretrato un contesto sociale nel quale, per far pervenire dei telefoni cellulari ad alcuni detenuti della casa Circondariale di Taranto, si utilizzano dei droni volanti.

La mafia, addentrandosi in mercati esistenti o creandone ad hoc, utilizza l’esistenza di ricchezza e di risorse, non è un “incidente” della modernità, un residuato di altri tempi, una rovina del passato. I vincoli della tradizione servono a suggestionare per rafforzare un “imprinting”: qui, l’estrema modernità della mafia si avvale anche delle sacche di miseria rionali che sfrutta per garantire un ricambio generazionale costante, reclutando nuove leve anche minorenni, facendo emergere il ruolo apicale da qualche anno a questa parte delle donne, mogli e compagne di capi storici o di sodali di generazioni successive, le quali sono incaricate di una sorta di “pedagogia nera” nei confronti dei giovanissimi che formano ai valori della prevaricazione, del potere, dell’omertà, della vendetta, del codice d’onore.

La miseria è dunque al limite un serbatoio per soggetti che dovranno agire in un contesto in cui esiste ricchezza e nel quale si condiziona la distribuzione di ingenti risorse. L’antico, il tribale, l’arcaico, il non contemporaneo convive e si integra col suo opposto perché evidentemente adattabili alla complessità della nostra società. È un processo di adattamento incessante alle dinamiche che il contesto locale consente e all’offerta sociale di possibilità di inclusione, la quale non è illimitata o simmetrica. Nelle asimmetrie sociali interviene il soggetto mafioso.

Nella costruzione del binomio individuo/società si nota allora la funzione delle organizzazioni criminali e le ragioni, forse, del perdurare del paradosso che la occulta: l’alternativa non è tra legalità e illegalità, bensì tra inclusione ed esclusione sociale. I gruppi mafiosi svolgono il ruolo di filtro tra le persone e la società, modulano il rapporto tra consenso e dissenso, anche se con una polarità negativa, perché improntata alla intimidazione e alla repressione e non alla promozione,  configurandosi in maniera speculare al circuito statale di cui condivide un lato della medaglia. Un po’ come le antiche confraternite e corporazioni militari, le organizzazioni di tipo mafioso assorbono marginalità, la riordinano, schermandola nei confronti di una realtà sociale percepita come “pericolosa” ed escludente, evitando che il potenziale di violenza di tale marginalità deflagri in maniera incontrollata.

Chi resta fuori può anche stare nella legalità, come si suol dire, ma in una sorta di marginalità della marginalità. In tal senso, la prevenzione e la lotta alla mafia si configurano come questioni molto più problematiche rispetto a quanto si pensi: e non è soltanto una questione di mancanza di lavoro o di cultura, quanto, probabilmente, di un vero e proprio sistema sociale improntato su registri comunicativi e operativi integrato nell’evoluzione della società moderna e da non poter essere “combattuto” se non dalla stessa capacità evolutiva della società. Di una società che creando inclusione, simultaneamente crea esclusione, possedendo nel suo stesso codice genetico le condizioni di possibilità dell’esistenza e dell’attività delle organizzazioni mafiose.

Altrimenti, dal 1992 a oggi, di vittoria in vittoria dello Stato, le relazioni della DIA non sarebbero diventate progressivamente sempre più voluminose!

Se e quando la mafia sarà sconfitta, qui come altrove, la domanda capitale è: cosa la sostituirà? Quale entità svolgerà le sue funzioni? Come controllare problemi e comportamenti sottratti a quel freno “istituzionale” -nel senso weberiano del termine- mafioso? Come si riorganizzerà la marginalità della marginalità? ______ 

LA RICERCA nel nosatro articolo di questa mattina

IL ROMANZO CRIMINALE SALENTINO. DAI TENTACOLI NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE AI NUOVI AFFARI DI STAMPO IMPRENDITORIALE: MOTIVI E PERSONAGGI NELLA RELAZIONE DELL’ ANTIMAFIA DEL SECONDO SEMESTRE 2021

Category: Costume e società, Cronaca, Politica

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