“La guerra è un business”. AFFOLLATO, QUALIFICATO E INTERESSANTE INCONTRO A LECCE CON IL GENERALE FABIO MINI. ECCO CHI C’ERA E DI COSA SI E’ PARLATO

| 26 Febbraio 2025 | 0 Comments

di Giovanni Gemma ________

Nel tardo pomeriggio di martedì 25 febbraio la Biblioteca Bernardini a Lecce ospita l’incontro «Europa, NATO e la guerra continua» con ospite d’onore il generale in pensione Fabio Mini accanto al presidente e fondatore di PeaceLink Alessandro Marescotti, Diletta Milo del MoVimento 5 stelle, il blogger Leonardo Elia, Mina Matteo del COBAS Scuola e il senatore Maurizio Buccarella. Moderatrice, la giornalista Alessandra Lupo.

Alla chiusura della serata, leccecronaca.it ottiene alcune dichiarazioni dal generale.

Mini, ufficialmente, presenta i suoi due libri Ucraina. La guerra e la storia – scritto con lo storico Franco Cardini – e L’Europa e la guerra. Di fatto, però, questi libri rimangono in sordina, parlando abbondantemente invece degli argomenti su cui li ha scritti.

Mini non è uno sprovveduto: ex generale di corpo d’armata in pensione dal 2003, è stato capo di stato maggiore del Comando Sud Europa della NATO e comandante del KFOR (il corpo internazionale che intervenne in Kosovo); da qualche anno scrive libri e articoli.

E sicuramente non gli mancano né la lucidità, tantomeno la curiosità: molto aggiornato sui temi d’attualità – su dedollarizzazione, armamenti dell’ultim’ora, terre rare e bitcoin, per esempio – anche non di ambito militare, Mini si dimostra anche bravo con la dialettica.

Come sulle parole di Mattarella a proposito del paragone tra l’invasione di Putin e quella di Hitler: qui il generale si mostra accorto e neppure nomina il presidente, parlando invece di massimi sistemi.

La sala è gremita, senza bandiere o simboli politici. Si fatica a trovare non dico un posto a sedere, persino una sedia dai custodi del Convitto. Ci sono molte sensibilità diverse, e anche qualche mancanza di sensibilità.

Il sentore generale, comunque, è quello di una manifestazione di piazza: chiaramente troviamo tanti pensieri differenti e poca disciplina (non richiesta, tra l’altro) ma almeno qualche elemento in comune. Qui, gli elementi in comune sono la richiesta di pace e la poca fiducia negli attuali vertici europei.

Buccarella apre le danze dicendo che dietro quest’incontro non c’è un’associazione unitaria, perché «siamo veramente [solo] un gruppo di persone» che si ritrovano «a commentare i fatti dell’oggi». Buccarella ha il tono di un padrone di casa che non ha ancora imbastito la tavola per gli ospiti, ma ha spolverato per bene il salotto: fuor di metafora, non ha nessun intervento, domanda o script preparato, epperò gira e rigira frasi e dichiarazioni ogni volta che viene chiamato in causa per non far temere di aver dimenticato in forno la cena.

Diletta Milo, da poco vicerappresentante del Gruppo di Lecce del M5S (tutta movimentista è anche il nome della carica: rappresentante, mica presidente o segretaria), si ritaglia uno spazio dialettico di miglior pregio – pur essendo, il suo, l’intervento più delicato nella scelta delle parole. In fondo, se sei un generale in pensione, un pacifista della società civile o una sindacalista hai un arbitrio nel tono ben maggiore da chi deve rappresentare una forza politica oltre a se stessa. In verità, è anche l’unica forza politica a prendere ufficialmente parola, anche se non l’unica invitata.

Milo parla di «un’analisi lucida e preoccupata» del generale nei suoi libri, e sottolinea come «l’identità nazionale ucraina [sia] resa difficile sia dalle pressioni russe che dalla presenza di varie etnie, con una fetta di popolazione che vedeva la vicinanza alla Russia come l’unica strada e un’altra che la rifiutava.» In un momento in cui i 5 stelle sono attaccati come putiniani (ogni tanto fuoriesce questa accusa), Milo ci tiene a precisare: «di aggressione [russa] si parla» e «la strategia di Putin [è] di difesa però in chiave imperialista.» Ah, imperialismo: questa parola così poco sentita in serata! Sarebbe risuonata solo alla fine, dalla bocca del generale.

Ora che Trump ha cambiato rotta, secondo Milo, l’Unione Europea si trova tagliata fuori, temendo una «pace-lampo». «Ma per tre anni ha parlato solo di guerra» e «ha demandato la gestione politica del conflitto alla NATO», uscendone «doppiamente sconfitta: non ha evitato la guerra, mentre avrebbe potuto svolgere un ruolo di arbitro internazionale, e ha perso la Russia come potenziale alleato strategico.»

A Fabio Mini, Lupo chiede una piccola introduzione ai libri. E il generale la smarca con un doppio passo di modestia: «Anche io, non sapete quanto sono ignorante!»

L’intento della scrittura era però chiaro: «Io e Cardini abbiamo detto: qui dobbiamo salvare la Storia, così fra trent’anni almeno qualcuno potrà vedere le varie posizioni». Il conflitto «si può allargare da un momento all’altro […] Se le due potenze [USA e Russia; ndr] si mettono d’accordo, è inutile che gli atri facciano i galletti!»

Mina Matteo denuncia quello che vede nel suo campo. In questo caso, la normalizzazione della presenza militare a scuola, secondo il motto Si vis pacem para bellum – che certo non condivide. Le forze armate entrano «a fare proselitismo» nelle scuole, «il 10-20% dei ragazzi nel liceo sono attratti dalla carriera militare, soprattutto perché si tratta di un lavoro stabile». Così «si accetta la militarizzazione della scuola come fosse una normalità, come oggi si accetta la privatizzazione della scuola», portandola «verso una deriva neoliberista e militarista». I percorsi di alternanza scuola-lavoro (obbligatori per la Maturità) spesso sono fatti in caserme e basi militari, anche i più piccoli vengono portati a fare visite guidate all’aeroporto di Galatina («una delle [mete] più gettonate, non si riesce neanche a prenotare»), mentre seguendo il dettato costituzionale «la scuola deve ripudiare la guerra».

Mini sottoscrive le parole di Matteo. Si vis pacem para bellum «è un bidone è una balla: se volete la pace preparate la pace». E passa – finalmente, per la platea – alle critiche verso quelle istituzioni di cui egli stesso è stato uno dei più importanti esponenti. «Abbiamo avuto missioni di pace che non erano proprio di pace. […] La discrasia tra quello che vede il soldato in azione e quello che gli viene insegnato o narrato dalla propria propaganda, […] crea danno anche a noi militari.»

Si lancia in una raffica di dichiarazioni dai tono fortemente polemici ma sempre ragionati. «Fare la guerra è molto meno vantaggioso che prepararla. […] Quelli che dicono prepariamo la guerra si abbeverano al grande business della preparazione: fare la guerra è un business, prepararla è un business 20 volte, 100 volte superiore.»

Nel caso ucraino, che fa da specchio a quello che sarà il prossimo futuro, «visto che la guerra così com’è non si può ne vincere né perdere per eccesso di perdita di vite, si passa alla preparazione ad una guerra tecnologica, in tal senso il nostro capo di stato maggiore ha ragione» quando dice che bisogna prepararsi alla guerra.

«In Ucraina hanno finito armi e munizioni ma soprattutto uomini. […] Prepariamo una guerra che sarà tra almeno quindici-venti anni [quella tecnologica; ndr] mentre non siamo preparati per le sfide di oggi. […] La guerra di domani potrebbe non esserci, perché potremmo non esserci noi.»

Alessandro Marescotti, abbastanza di casa a Lecce, si definisce «uno di quei pacifisti che studia la guerra, che quando si parla di qualcosa di così complesso come la guerra in Ucraina non si debba partire da qualche astratta teoria della pace, ma dalla realtà effettiva» e cita Machiavelli. Inatteso.

Porta con sé una serie di slides proiettate (le potete vedere qui) sulle spese militari, che prospettano uno scenario di grande confronto silente ma armato e di grandi blocchi con capitali enormi a disposizione. L’incremento delle spese militari «non avviene per caso»; cita il complesso militare-industriale di Eisenhower e ricorda il ritorno degli euromissili nel luglio 2024 – con un nuovo missile russo dispiegato in risposta – come un passo (in negativo) che non si compiva dal tempo degli accordi del 1987 tra Reagan e Gorbachev. Conclude sull’attualità: «Questo disgelo tra Usa e Russia va preso come una grandissima opportunità.»

Mini riprende la parola, abbastanza in disaccordo con Marescotti sull’usare termini quantitativi sulle armi per l’analisi sulla politica di riarmo. Invece, propone una strada più complessa. «Quello a cui assistiamo da almeno venti anni è che è la testa dei governanti è cambiata. […] Mi è stato detto: voi militari siete più pacifisti dei pacifisti – sì! Perché tutto questo ambaradan ci danneggia, ci serve che nessuno rompa le scatole» e con le teste calde non si riesce a farlo. «Abbiamo il dovere noi militari di dire ai politici: hai strumenti non solo militari, usali!»

Al che Matteo chiede a Mini: ma come ha fatto a fare il generale? Mini si giustifica: «Ai miei tempi i vertici stessi erano diversi, se i militari devono il posto a qualcuno o peggio qualcosa allora siamo nei guai.» E proclama: «Siamo come una macchina con una carrozzeria perfetta, ma una centralina che non funziona e un guidatore ubriaco. […] Dal primo giorno in cui ho messo la divisa sono stato per l’esercito europeo, da qualche anno ho cambiato idea perché mettere nelle mani di queste persone che stanno a capo dell’UE anche solo uno spicciolo è una follia.»

L’intervento di Leonardo Elia arriva così alla fine dei giochi, stretto anche tra le incursioni dal pubblico e l’intervento “conclusivo” di Buccarella. Riesce solo a sottolineare che «in Ucraina si confrontano due complessi militari-industriali» e quindi quella guerra «è diventata una grande fiera campionaria». Tra il pubblico, intanto, qualcuno è scontento del fatto che non si sia parlato – per mancanza di tempo – della situazione in Palestina.

Arrivati alla chiusura dell’incontro, dopo due ore e mezzo stracolme, facciamo un paio di domande al generale, che ancora aveva voglia di dialogare e confrontarsi. Innanzitutto: si può scappare dalla trappola di Tucidide (quella per cui ci sono sempre due potenze destinate a darsi battaglia, e ogni volta ne spunta una nuova a rimpiazzare a perdente)? Per Mini sì, si può scappare. Si più: non esiste questa trappola.

«Elevare questa speculazione filosofica a modo di gestire i rapporti internazionali è un metodo che non funziona. Siamo scappati dalla trappola di Tucidide almeno venti volte durante la Storia. Tutti gli imperi che sono caduti durante la Prima guerra mondiale mica avevano la trappola dietro, idem gli imperi coloniali – e son caduti tutti! All’inizio ce n’era una e l’altra – come Spagna, Francia, Olanda eccetera – ma poi quando si sono livellati – stabilizzati come tutti i fenomeni – la trappola è venuta meno.»

Un crollo imperiale dal basso, più che per impulso di guerra.

E ora una domanda personale: in carriera, s’è mai pentito di qualcosa? «No. Ho cercato di fare delle cose, mi son riuscite, sono soddisfatto.» E se ricominciassimo dall’accademia militare, tutto uguale? «Ma io non ho fatto l’accademia [all’inizio]! Ho cominciato a 12 anni facendo il fabbro, a 18 il ragioniere, venivo a Lecce a portare le sale da pranzo per venderle al signor Muia di Veglie – sei mica di Veglie? Sono entrato in accademia a quasi 22 anni, al limite di età, uno dei più vecchi. Poi dopo sono diventato il primo – proprio perché non avevo cominciato in accademia. Quando qualcuno – che io chiamo dalla culla alla tomba – che è sempre vincolato ad un certo percorso, come quello militare, dalla Nunziatella in accademia e poi tutta la carriera, alla fine non hanno niente in mano. Per cui ti mandano in pensione e non sanno nulla! Quanti generali vedi in pensione che vanno in giro per convegni e scrivono saggi? In tutta la vita militare non hanno avuto il raffronto con la realtà.»

Un po’ monastero, quindi? «Sì, c’è qualcuno che questa parola l’ha usata. Un tenente istruttore in accademia parlava proprio di questo: la vita militare è una missione e un sacerdozio. E lui non si è mai sposato!»

Category: Cultura, Eventi, Libri, Politica

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