IL PERCORSO NUOVO DELLA MUSICA ITALIANA TRACCIATO DA DANIELA PES, LA DEA DEL SUONO, E DA GAIA BANFI, CANTAUTRICE DELL’INTIMO PROFONDO

di Roberto Molle ________________
Nel mentre la penisola resta ostaggio di un arido mainstream cresciuto a colpi di like sui social e a ripetuti passaggi radiotelevisivi con Sanremo e i vari talent a dettare la linea, ai bordi della scena musicale italiana, per contrappasso, si creano anticorpi che, lentamente, con fatica, riescono a inocularsi nel sistema e, in qualche modo, a sbaragliarlo.
Se il paradigma dominante che di fatto monopolizza ascolti e visualizzazioni streaming (per lo più delle giovanissime generazioni) si nutre dell’uso esasperato dell’autotune, di testi svuotati di ogni barlume poetico e riempiti di meri contenuti edonistici e vetusti incroci di versi, di contro, dalle periferie dell’impero insistono rigurgiti di purezza e armonie restate incubate con la smania di venire alla luce; da lì vengono ispirazioni profonde e una musica che si nutre di misterici significati, da lì nascono dischi capolavoro fatti di suoni e parole, di voci e pensiero; da lì due donne che sono musiciste, compositrici e cantanti, hanno iniziato a tracciare un percorso nuovo fatto di esplorazioni sonore, sguardi introspettivi, creazione di linguaggi inesistenti in passato e rielaborazioni degli stessi codici interpretativi.
Daniela Pes e Gaia Banfi. Due universi paralleli che in alcuni punti si incontrano per poi allontanarsi, tracciando tuttavia, nuove traiettorie da seguire attraverso la bellezza della musica.
Daniela Pes: la dea del suono.
“Ieri durante un viaggio, con la pioggia che batteva sui finestrini, ascoltavo un disco uscito da poco. Uno di quei dischi che arriva quando tutte le speranze sembrano perse e un segnale, per quanto piccolo, può farti ripartire. Il titolo del disco è “Spira” e la sua autrice si chiama Daniela Pes (nata in Gallura nel 1992, cantautrice, musicista e compositrice di musica elettronica con formazione jazz). “Spira” è un miracolo di bellezza fatto di salti spazio-temporali guidati da una voce calda e sensuale capace di trasmettere vibrazioni attraverso lingue incomprensibili che s’intrecciano tra nenie, elettroniche sincopate e afflati ancestrali”; così scrivevo da qualche parte, quando nel 2023 veniva dato alle stampe un album rivoluzionario che scardinava logiche di composizione e rifondava il concetto stesso di scrivere e suonare musica.
Lunare e misteriosa, la musica di Daniela ha la capacità di trasportare in una dimensione “altra”, proprio come i suoi live, che assomigliano a un vero e proprio rituale sciamanico guidato dalla voce ipnotica della cantautrice. La sua formazione jazz è la caratteristica che le permette di sparigliare strutture sonore massificate, rendendole aperte a meravigliose vecchie e nuove contaminazioni.
Un’emancipazione che nelle sette tracce che compongono la sua eccellente opera prima si palesa dietro ogni piccolo dettaglio e sovrintende tutte le idee che si avvicendano lungo l’atipico percorso. A cominciare dall’utilizzo della voce, che si conferma sempre essere un vero e proprio strumento tra gli strumenti; una definizione che trova conferma nel lavoro compiuto dall’artista sarda, inconsueta, magnetica, profonda, quando necessario anche spigolosa. La peculiare vocalità va a unirsi a testi composti dalla stessa autrice in una lingua inesistente, formata da antichi lemmi galluresi, da brandelli di vocaboli italiani e da altri completamente inventati, armoniosamente ricondotti in un organismo affrancato dalla volontà di comunicare un pensiero vero e proprio, ma con il solo obiettivo di formare un suono che funga da inno, inespugnabile con la ragione e accessibile solo con l’immaginazione, con l’emozione.
C’è da dire che Daniela Pes ha potuto contare sui contrafforti di un altro musicista “non convenzionale”, quel Jacopo Incani meglio conosciuto come Iosonouncane, che un paio di anni prima aveva pubblicato “Ira”, un album monumentale, immenso, magmatico e iconoclasta (ce ne siamo occupati a leccecronaca.it l’11 luglio del 2021 n.d.r.). Jacopo, anche lui sardo, è stato valida e profonda possibilità di confronto per Daniela Pes.

“Spira” si compone di sette tracce che si sviluppano come flussi sonori che conducono dentro rituali pagani e ancestrali, con Daniela che si fa vestale e vittima sacrificale a un tempo, muovendosi con grande fluidità tra raffinate e stratificate elettronice, dai ritmi talvolta più incalzanti (Illa Sera e Laira), che richiamano le sofisticate trame del kraut-rock (Ora) oppure le avanguardie sperimentali del primo Battiato (Ca Mira); deliri stilistici che vanno a fondersi nella semi-suite A te sola, dove negli oltre dieci minuti di durata sono toccate tutte le sfaccettature della sinuosa creatività di Daniela, qui screziata da colte fragranze acustiche ed etniche che tendono ad ampliare lo scenario inventivo e a completare il livello d’intensità dell’intero album.
Gaia Banfi: il ghiaccio e il fuoco dentro le parole.
Gaia Banfi è una cantautrice, musicista e produttrice Milanese. La sua ricerca insegue i canoni di una nuova canzone d’autore che trova i suoi riferimenti dentro un modernariato sonoro che affonda le radici nel cantautorato del passato e pensa ai suoni del futuro. Figlia di Baffo Banfi, tastierista della storica band prog italiana Biglietto per l’Inferno, ha da pochissimo pubblicato un album che si chiama “La Maccaia” (uscito per l’etichetta Trovarobato).
Confesso che non conoscevo Gaia e l’incontro fortuito con le sue canzoni mi ha lasciato senza fiato, regalandomi momenti di intensa liricità e parole capaci di incidere come un bisturi lasciandoti dentro attimi di struggente bellezza prima di ricucirti. Partendo da coordinate che svelano un universo personale (quello di Gaia) malinconico e cupo, mi sono immerso nell’ascolto di “La Maccaia” durante una breve vacanza in una località del Matese in Molise.
Alla voce Maccaia (Macaia o Maccaja), Wikipedia esplica in poche parole: una condizione meteorologica ligure, una nebbia umida e soffocante che si verifica nel Golfo di Genova col vento di scirocco. Condizioni che vivendo all’estremo lembo orientale dello stivale conosco benissimo, essendo lo scirocco uno dei venti che di più battono il Salento. Volutamente ho sganciato ogni collegamento tra l’artista, il disco e i luoghi, riposizionando il tutto entro coordinate sospese in un immaginario traslato per comodità di immedesimazione dentro spazi più personali.

I sette brani dell’album si snodano dentro una traiettoria intimista sospesa tra un vedo non vedo dal respiro esistenziale. Macaia, con un incipit estenuante e un anonimo speaker che snocciola versi su un tappeto distopico, rilascia informazioni utili alla preparazione per quello che sarà un viaggio che si preannuncia sofferto e affascinante. Piazza Centrale, una nebbia sottile come coltre trafitta da timidi raggi solari si dirada mentre guardo fuori dalla finestra del mio alloggio nella piccola piazza del paesino di Cantalupo. La voce di Gaia Banfi si leva dolente, algida, penetrante. E canta di una piazza, di umori al crepuscolo, di un amore affidato a suoni languidi e versi tessuti ai registri di un synth che elabora tristezze. Imprigionata nelle ragnatele del tempo con i fantasmi dei ricordi che la accerchiano, Gaia si concede alla sconfitta mentre fuori piove, a dirotto. Il lungoriva di Genova, Il delirio dell’oltre, il frangersi di memorie della stagione bianca. Corde mnemoniche che si liberano spargendo parole intinte nella poesia. Acrimonia disciolta dentro lacrime mai piante, una processione che si dissolve nell’oscurità del crepuscolo. Amar entra languida, enigmatica, sospesa. Delicato incedere di versi in spagnolo, melodia sgranata dentro un crepuscolo di sogno. 7 è quasi filastrocca divelta dagli steccati convenzionali, con incursioni di synth a suggello di passato e presente. Congelati si nutre di sussulti ispirati a retaggi vocali di altre epoche. Tutto si muove su un asse che vede oltre la Banfi musicisti contemporanei come Andrea Laszlo De Simone, Jacopo Incani, Daniela Pes e pochi altri, districarsi tra strutture testuali giocate dentro lo stesso alveo poetico-crepuscolare, con suoni creati sui tasti di “macchine emotive” (banalmente chiamate synth, ma sono molto di più) capaci di generare infiniti spettri armonici, spesso riconoscibili tra i solchi dei dischi di ognuno dei musicisti citati, come segno di appartenenza a un nuovo ordine di artisti, con un proprio codice di espressione. Seia inizia con delle pulsazioni nella nebbia. Le parole si liberano pregne di pathos dentro un medioevo riposizionato in un mondo distopico. La voce aspirata di Gaia filtrata da processi digitali non perde bellezza, rimane delicata, malinconica, profonda.
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