IL CASO / IVAN CIULLO, DOPO DIECI ANNI LA FAMIGLIA PORTA L’ITALIA DAVANTI ALLA CORTE DI STRASBURGO: “Nessuna giustizia, indagini inadeguate”

| 10 Novembre 2025 | 0 Comments

di Flora Fina____________

Dieci anni dopo la morte di Ivan Ciullo, il dj salentino trovato senza vita nelle campagne di Acquarica del Capo il 22 giugno 2015, la parola “giustizia” resta una promessa infranta. Dopo quattro archiviazioni e una lunga serie di battaglie giudiziarie, la famiglia del giovane ha infatti deciso di rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, denunciando lo Stato italiano per violazione dell’articolo 2 della Convenzione europea, che impone agli Stati membri l’obbligo di svolgere un’indagine effettiva e imparziale in caso di morte sospetta.

È un passo estremo, ma inevitabile per chi, da dieci anni, non ha mai smesso di chiedere che si indaghi davvero su ciò che accadde quella mattina di giugno.

Ivan, trentiquattrenne molto conosciuto nel mondo della musica con lo pseudonimo DJ Navi, fu trovato impiccato a un ramo d’ulivo con un cavo da microfono. Una scena che apparve subito “ordinata”, quasi ricostruita. Eppure, senza un’autopsia, senza impronte rilevate e con diversi elementi discordanti, le autorità giudiziarie conclusero in tempi rapidi per il suicidio.

Sin dalle prime ore, i genitori di Ivan, Rita Bortone e Antonio Ciullo, non credettero a quella versione. Il figlio, raccontano, era sereno, pieno di progetti musicali, impegnato a pianificare nuove serate e collaborazioni radiofoniche. Nessun segnale di crisi, nessuna traccia di depressione. Eppure, la mattina del 22 giugno, il suo corpo fu ritrovato in una contrada isolata, con accanto uno sgabello e un biglietto di addio la cui grafia, secondo i periti di parte, non apparteneva a lui.


Nonostante tali incongruenze, la Procura di Lecce non dispose l’autopsia e archiviò il fascicolo come suicidio nel settembre 2015, appena tre mesi dopo il decesso. Le prove materiali — i vestiti, le scarpe, il cavo elettrico — vennero formalmente repertate, ma successivamente dichiarate irreperibili.

Fu l’inizio di una battaglia solitaria contro il tempo e contro la burocrazia. Negli anni successivi, grazie alla caparbietà della famiglia e ai legali Paolo Maci, Maria Chiara Landolfo e Gianluca Tarantino, il caso fu riaperto più volte.
Nel 2017, su ordine del giudice Brancato, vennero disposte nuove perizie informatiche e medico-legali. L’ex compagno di Ivan, Giovanni Legittimo, fu iscritto nel registro degli indagati per istigazione al suicidio, ma anche quella pista si arenò. I tabulati telefonici non erano più recuperabili, molti dati digitali risultavano cancellati o non acquisiti nei termini di legge.

Nel 2018, la famiglia affidò a un team di esperti indipendenti, tra cui il criminologo Francesco Lazzari e il medico legale Carlo Panichi, una perizia di parte che ribaltava completamente la versione ufficiale.
Secondo la loro ricostruzione, il corpo di Ivan mostrava segni incompatibili con un’impiccagione volontaria: l’osso ioide non era fratturato, l’altezza dell’albero non permetteva una sospensione completa, e alcune macchie sul volto e sul torace suggerivano una possibile aggressione precedente alla morte.
La perizia portò la Procura, nel 2023, a riformulare il capo d’imputazione e ad aprire un’indagine per omicidio volontario, con due indagati: lo stesso Legittimo e un collaboratore musicale di Ivan, Giampiero Romano.

Le indagini, però, non produssero risultati concreti. I test del DNA sul cavo risultarono inconcludenti, i reperti erano in parte contaminati, le fotografie della scena incomplete. Venne effettuata una simulazione della dinamica dell’impiccagione, ma le conclusioni degli esperti nominati dalla Procura furono opposte a quelle dei consulenti di parte: per i primi, la morte restava compatibile con il suicidio; per i secondi, la scena era chiaramente ricostruita.

Nel 2022, la Procura dispose una “super-perizia” collegiale affidata ai professori Zola, Greco e Vernaleone, che confermarono l’ipotesi suicidaria, pur ammettendo che la mancanza di un’autopsia e la dispersione dei reperti avevano compromesso in modo irreversibile la possibilità di giungere a una verità certa. Sulla base di quelle conclusioni, nel luglio 2025, il giudice Tea Verderosa ha accolto la richiesta della Procura e disposto la quarta archiviazione del caso.

Di fronte a questa decisione, la famiglia Ciullo ha deciso di compiere l’ultimo passo possibile: ricorrere alla Corte europea dei diritti dell’uomo, chiedendo che venga riconosciuta la violazione del diritto a un’indagine effettiva. Nel formulario inviato a Strasburgo, i legali della famiglia denunciano un insieme di omissioni e negligenze tali da svuotare di senso il principio di giustizia.


L’atto ricostruisce dieci anni di indagini interrotte, contestando le scelte iniziali della Procura e l’assenza di un protocollo investigativo adeguato in caso di morte sospetta.
Si comprende, pertanto, da quanto si legge nel ricorso – ben 9,290 kg di documenti stampati, come afferma Sergio Martella, padre putativo di Ivan– che lo Stato italiano non ha garantito ai suoi familiari un’inchiesta indipendente e approfondita, ma si è limitato a confermare, in modo superficiale, un’ipotesi costruita su presunzioni e non su prove.

L’obiettivo non è soltanto ottenere un risarcimento, ma ottenere il riconoscimento formale di un errore sistemico: quello di aver chiuso un caso complesso senza verificare tutte le possibilità. La Corte europea, una volta ammesso il ricorso, potrà chiedere allo Stato italiano di rispondere punto per punto alle contestazioni. In caso di accoglimento, l’Italia potrebbe essere condannata per violazione dell’articolo 2 della Convenzione, come già avvenuto in altri casi di indagini lacunose o manipolate.

Dieci anni dopo, quella storia è diventata qualcosa di più di un semplice caso di cronaca: è il ritratto di un sistema giudiziario che spesso arriva tardi e male. Il caso Ciullo non è solo il dramma di una famiglia, ma anche la fotografia di un Paese che fatica a garantire indagini tempestive e rigorose quando le prove iniziali vengono trascurate.

Ogni archiviazione, in questa vicenda, suona come una resa. Ogni perizia contraddetta lascia la sensazione di una giustizia confusa, incapace di ricostruire i fatti con metodo. Eppure, la verità non è un lusso riservato ai casi mediatici: è un diritto di chi resta, di chi vive nel dubbio, di chi non smette di chiedere risposte.

Oggi la speranza dei genitori di Ivan passa da Strasburgo, dove una corte sovranazionale potrà forse riconoscere ciò che in Italia non è stato ammesso: che l’indifferenza e la superficialità possono uccidere una seconda volta, cancellando la possibilità stessa di sapere. Se quella voce troverà finalmente ascolto, non sarà solo una vittoria per la famiglia Ciullo, ma per tutti coloro che credono che la verità, anche quando arriva tardi, resti l’unico atto di giustizia possibile.

Tags:

Category: Cronaca

About the Author ()

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Connect with Facebook

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.